Il profeta Elia
Profilo Biografico
Il profeta Elia, padre del Carmelo
Elia è il profeta del Dio vivente: il suo nome stesso, che significa: “Jhwh è Dio”, è il vero programma della sua vita. È davvero uno dei più grandi uomini dell’Antico Testamento: l’uomo che sta alla Presenza del suo Dio. Lo zelo (cioè l’ardore) è il tratto essenziale della sua fisionomia e il suo simbolo il fuoco (Sir 48, 1).
Porta un messaggio molto rivoluzionario e originale, che si comprenderà meglio però alla conclusione della sua stessa vicenda.
Il racconto biblico lo fa apparire, più di una volta, quasi all’improvviso, come una folgore, per trasmettere la parola di Dio.
L’empietà di Acab e Gezabele
Nativo di Tisbe, Dio lo aveva mandato al Re di Samaria, Acab, che si era reso gravemente colpevole, istigato dalla perversa moglie Gezabele, per aver servito l’idolo Baal, e per essersi prostrato dinanzi a lui.
Gli aveva eretto anche un altare e un palo sacro, irritando così il Signore Dio d’Israele, più di tutti i suoi predecessori. Per questo l’ira del Signore si era scatenata su di lui facendo risuonare la parola punitrice del profeta: “Per la vita di Jhwh, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto: in questi anni non ci sarà né rugiada, né pioggia, fino a quando io lo dirò” (I Re, 17, 1ss).
Perseguitato per questo da Acab, Elia, sempre per volere di Dio, rimane nascosto presso il torrente Cherit, nel folto verdeggiante e nelle grotte che si trovavano sul pendio, mentre i corvi gli portavano da mangiare. Egli beveva al torrente, che presto però si prosciugò; seguendo sempre la voce del Signore Elia cercò rifugio a Sarepta, a sud di Sidone, recandosi da una vedova, per avere un po’ di cibo. Così questa donna, che praticava la grande virtù orientale dell’ospitalità, gli offrì il poco cibo che le rimaneva, vedendo con gioia la moltiplicazione della farina e dell’olio nella giara; vide anche con stupore che il suo unico figlioletto morto, per la preghiera di intercessione del profeta, era ritornato in vita.
Gezabele, la malvagia moglie di Acab, aveva meditato la sua vendetta contro Elia.
Ella che era figlia del Re di Tiro e sacerdote di Astarte, vedeva nella sua religione un mezzo per civilizzare tutta la Samaria. Ordinò dunque un giorno un massacro generale dei profeti di Jhwh, a cui poterono sfuggire solo un centinaio di persone, per la protezione di Abdia, maestro di palazzo, che seguiva il vero Dio, Jhwh. Elia trascorse a Sarepta tre lunghi anni, quando Dio stesso gli si rivolse ancora, per mandarlo ad Acab e far cessare la tremenda siccità.
Il monte Carmelo: luogo della sfida
Lo scontro fra i due personaggi è forte e tagliente. Elia ordina allora ad Acab di convocare sul Carmelo il popolo d’Israele e la comunità dei 450 profeti di Baal, sostenuti dalla regina Gezabele. Vengono così a confronto due visioni religiose: quella del Dio vivente e quella di Baal di Tiro.
La scena è davvero drammatica. Elia, che si proclama l’unico profeta rimasto fedele a Jhwh, lancia la sfida inesorabile, rimproverando il popolo per la sua incoerenza: si tratta di decidere chi è Dio. Se lo è Jhwh, Baal non solo è superato, ma neppure esiste.
L’evento è pieno di umorismo, nelle parole di Elia ai profeti e nei suoi stessi gesti (I Re 18, 19).
Ed ecco che la voce dei profeti di Baal, che gridano e danzano, ebbri fino al delirio, intorno all’altare posto al centro, invocando il loro Dio, rimane inascoltata: Elia, dopo averli espressamente derisi, “prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei discendenti di Giacobbe. Con le pietre eresse un altare al Signore; scavò intorno un canaletto… dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna. Quindi disse: “Riempite quattro brocche d’acqua e versatele sull’olocausto e sulle pietre””. Lo fece fare per tre volte. La risposta di Dio alla voce di Elia che gli si era rivolto per essere esaudito nella sua richiesta è bellissima e quanto mai incisiva: “Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tale vista tutti, prostrandosi a terra dissero: “Il Signore è Dio, il Signore è Dio!””. Immediatamente Elia ordina alla folla di afferrare i profeti di Baal per ucciderli.
L’idolatria è vinta! Il quadro è veramente suggestivo e impressionante.
Scroscia la pioggia
Elia, secondo la parola di Dio, deve ancora dire ad Acab che presto ritornerà a piovere nel paese: lo fa dopo essersi portato con il giovane che lo serviva a scrutare il cielo e a pregare per questo. Il giovane, invitato a guardare il cielo sette volte, alla fine vede una piccola nuvola, indice che la pioggia è prossima. Elia va ad avvisare Acab di attaccare subito i cavalli per tornare ad Izreel: la pioggia infatti cade subito a dirotto.
La prova di Elia
Eppure in questo profeta dalla linea ferrea è vivo anche un senso di umanità e di povertà quando è colto dallo scoraggiamento; è vivo anche il senso della misericordia verso coloro che sono sopraffatti dall’ingiustizia o dalla sofferenza.
Elia infatti, fino a questo momento, è stato un uomo molto sicuro di sé, desideroso di mostrare la sua potenza e la sua forza e di essere vittorioso sugli altri, anche al di là della Parola di Dio: ha ricercato insomma più se stesso, facendosi vedere uomo coraggioso e capace di farsi valere.
Per trovare veramente Dio deve percorrere ancora un lungo cammino di prova, che lo renderà più umile, meno sicuro di sé: egli dovrà nascondersi per dare a Dio il suo vero posto.
Gezabele manda messaggeri ad intimidirlo e a minacciarlo di morte. Elia allora, prima così pieno di sé e dell’aiuto del suo Dio, è stranamente preso da una forte crisi e fugge, profondamente intimidito da questa minaccia.
La nuova esperienza di Dio
Deve tornare, per riprendere l’antica fiducia, all’Oreb, alle sorgenti della pura fede. Non si sente migliore dei suoi Padri e chiede al suo Dio di farlo morire.
Si addormenta sotto un ginepro. Un angelo lo sveglia e gli ordina di alzarsi e di mangiare. Elia, con il pane offertogli e con l’acqua dell’orcio che gli è posto dinanzi, riesce a riprendere forza e a rimettersi in cammino. Andrà così fino all’Oreb, attraversando per quaranta giorni e quaranta notti il deserto, misteriosamente incoraggiato e nutrito.
Se prima Elia si era mostrato come l’eroe che combatte per Dio, da questo momento egli, ritraendosi nel deserto, si immedesima con la Parola di Dio. Vuole attendere che Dio gli si manifesti, prima che egli stesso parli. Lo stile letterario esprime a questo punto la nuova esperienza di Dio: è essenziale, sobrio, scarno.
Elia si rifugia in una caverna, sulla cima del monte. Probabilmente pensa, come Mosè, di incontrarsi con Dio. Ma Dio non gli si mostra né nel vento forte, né nella tempesta, né nel fuoco, con tutti i suoi fenomeni impressionanti. Egli allora si copre col mantello ed esce, fermandosi all’ingresso della caverna.
Siamo in un clima che sottolinea la trascendenza: l’ebraico esprime la forte esperienza che Elia fa di Dio con queste parole: “qol demamah daqqa”, ossia una “voce di silenzio svuotato”; sono parole difficili da interpretare che indicano la sua profonda estasi. Parlano di un silenzio, che non è il silenzio che si ha perché mancano i suoni, ma di un silenzio cercato, che parla di ricerca, che non viene da sé. Di un silenzio perciò “procurato”.
Elia arriva così ad una conoscenza più reale di quel Dio, alla cui presenza vive, che è tale da cambiare la sua persona, da renderlo diverso, veramente “uomo di Dio”.
Egli, dopo la crisi e la dura prova, si rivela d’ora in poi il vero contemplativo, il primo monaco, padre dei futuri monaci, che conosce in questa “voce di silenzio svuotato” qualcosa di più profondo e vero della realtà divina. E ne rimane letteralmente trasformato.
Il suo incontro è portatore di intimità, di profondo silenzio, di forza: Elia diventerà l’uomo umile, che si nasconde dietro la Parola di Dio.
Questo fatto è il segno evidente dell’importanza che l’esperienza dell’Oreb ha avuto per la sua vita. C’è qui una rivelazione nuova del volto di Dio, inattesa. Elia, mettendosi nelle mani di questo Dio, da ora in poi dovrà cambiare vita: non agirà più come prima in virtù della sua volontà, ma aspetterà che veramente il Signore gli parli, facendo solo così la Sua volontà.
Un angelo gli affida una triplice investitura: di Hazael come Re di Damasco, di Jehu come Re d’Israele, di Eliseo come profeta. Così ha termine il grande incontro.
Le ultime vicende
Le ultime vicende, dopo la discesa dal monte, sono più sfumate; dopo aver rimproverato aspramente Acab, secondo la Parola di Dio, per l’assassinio di Nabot (I Re 21, 1), Elia riappare alla morte di Acazia, ove per due volte fa scendere il fuoco dal cielo sui soldati mandati a lui dal Re. Una terza volta consente di andare presso Acazia, confermando l’annuncio della sua morte, a causa della sua infedeltà.
Il carro di fuoco
L’itinerario di Elia si svolge in due tempi fondamentali: da una parte l’esperienza dell’Oreb che cambia la sua vita e dall’altra l’apoteosi finale, il suo rapimento mistico.
Elia scompare in circostanze dense di chiarezza e ancor più di mistero.
Parte da Galgala per Betel e poi per Gerico con Eliseo, che presago della sua fine, vuole seguirlo, nonostante le sue insistenze di rimanere solo.
Sulle rive del Giordano le acque, percosse dal mantello di Elia, si aprono. Egli si decide finalmente a riconoscere che sta per essere rapito in cielo e chiede ad Eliseo che cosa debba fare per lui. “Due terzi del tuo spirito diventino miei” dice Eliseo (II Re 2, 7ss). I due terzi, nella mentalità ebraica, rappresentano la parte di eredità spettante al primogenito. Eliseo vuole essere riconosciuto quale primogenito del profeta Elia. Al che Elia risponde: “Se mi vedrai, ciò ti sarà concesso”.
Eliseo vedrà Elia, in una specie di estasi profetica, con l’apparire del carro di fuoco e dei cavalli di fuoco e con l’improvviso suo elevarsi nel turbine, inseguito dal suo grido di figlio, cui il padre è strappato: Eliseo soffre per la dipartita del suo maestro, ma pur essendo “il suo discepolo” non riesce a comprendere bene cosa sia successo.
Egli si strappa le vesti e raccoglie il mantello di Elia: non capisce che il profeta, in una grande estasi, è salito al cielo, quasi in una ascensione, anticipatrice di quella che sarà poi l’ascensione di Gesù stesso.
Elia primo monaco
Elia primo monaco
Nella figura del profeta Elia si sente il fascino dell’archetipo, dell’esemplare, pronto ad obbedire al suo Dio: Egli è fuoco e acqua, zelo e misericordia, azione e contemplazione. “Unico nel tuo coraggio, possente nella tua audacia, tu corresti impavido in soccorso della verità”, dice l’Ecclesiastico.
C’è in Elia qualcosa di ricco e profondo: egli, dopo la crisi del deserto, diviene l’uomo del distacco, dell’obbedienza, della purezza interiore e della preghiera.
Forte è in lui il desiderio e la speranza di vedere il suo Dio, di essere in comunione con lui, quando è afferrato dalla Carità; Carità che trabocca nello sforzo di poterla comunicare ad altri, allontanandoli dal male.
È diventato così, in un certo modo, Padre di tutto il monachesimo.
Il luogo sacro per Elia non è più al di fuori, come il tempio di Gerusalemme: il suo santuario è dentro e viene percorso interiormente; è un pellegrinaggio interiore per incontrare il Dio vivo e vero. Leggendo il testo, illuminati dall’esperienza cristiana, ci si trova bene in sintonia con la parola stessa di Gesù: “Né sul Garizim né a Gerusalemme adorerete Dio, ma il Padre si adora in spirito e verità” (Gv 4, 20-24).
Questa esperienza storica di Elia, davvero originale, per molto tempo non è stata compresa, nel secondo secolo avanti Cristo è stata ripresa in parte dagli Esseni, i membri del popolo di Israele che si ritiravano nel deserto per una vita rigorosa per aderire a Dio secondo la Torah, praticata nella comunità di Qumran. Ma è un tesoro nascosto, che va tuttora ripenetrato e riscoperto. L’esperienza monastica lo farà risorgere, di generazione in generazione. È consegnata in eredità come un mantello: il Carmelo lo ha indossato e ne ha fatto il suo baluardo, considerando Elia come capostipite di tutti i suoi figli di ogni generazione.
Il segno del mantello
Il mantello di Elia
“Poi, volendo Dio rapire in cielo in un turbine Elia, questi partì da Galgala con Eliseo. Elia disse a Eliseo: “Rimani qui perché il Signore mi manda fino a Betel”. Eliseo rispose: “Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò”. Scesero fino a Betel. I figli dei profeti che erano a Betel andarono incontro a Eliseo e gli dissero: “Non sai tu che oggi il Signore ti toglierà il tuo padrone?”. Ed egli rispose: “Lo so anch’io, ma non lo dite”. Elia gli disse: “Eliseo, rimani qui, perché il Signore mi manda a Gerico”. Quegli rispose: “Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò”. Andarono a Gerico. I figli dei profeti che erano in Gerico si avvicinarono a Eliseo e gli dissero: “Non sai tu che oggi il Signore ti toglierà il tuo padrone?”. Ed egli rispose: “Lo so anch’io, ma non lo dite”. Elia gli disse: “Rimani qui, perché il Signore mi manda al Giordano”. Quegli rispose: “Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò”. E tutt’e due si incamminarono. Cinquanta uomini tra i figli dei profeti li seguirono e si fermarono a distanza. Loro due si fermarono sul Giordano” (2 Re 2, 1-7).
In questa pagina abbiamo la chiamata di Eliseo, il cui nome significa “Dio è la mia salvezza”, al ministero profetico e la paternità spirituale di Elia come eredità.
Eliseo era figlio di Safat, faceva il contadino e viveva con i genitori ad Abel-Mecola, una località di identificazione incerta. Molti sono i simboli che accompagnano questa chiamata.
“Arava con dodici paia di buoi”. Basterebbe soltanto questa citazione del v. 19, per descrivere la nostra riflessione sulla chiamata di Eliseo.
Il termine “Arare” nella Bibbia viene usato sia letterale che metaforico. Metaforicamente, il termine indica la situazione di una persona, di uno stato o il giogo dei nemici (Sal 129,3); oppure anche la consacrazione diretta, come dirà Gesù: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volta indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9, 62).
Il numero dodici è molto importante per vari aspetti. Fra questi ricordiamo la pienezza numerica del popolo di Dio evidenziandone i dodici figli di Giacobbe (Gen 35, 22-26), dai quali derivano le dodici tribù di Israele. Il numero dodici simboleggia la restaurazione di Israele. Gesù istituisce i dodici come garanzia dell’autenticità degli insegnamenti di Gesù, che dopo la sua resurrezione formeranno la Chiesa.
Ma ciò che caratterizza di più in questo versetto 19 è il simbolo del mantello, tipico indumento del profeta (cfr Zac 13, 4; Mt 3, 4). Esso indica la vita e la personalità di chi lo indossa (cfr 1 Sam 28, 14; 2 Re 1, 18).
Eliseo è stato attratto dalla personalità di Elia, è stato attratto proprio dall’uomo che vive alla presenza di Dio. Poco prima Elia aveva sperimentato il suo vivere alla presenza di Dio in modo “silenzioso”, “come un lieve sussurro” (v. 13).
È interessante notare la differenza della vocazione di Eliseo dalle altre. Dio lo chiama inaspettatamente: non in un contesto di preghiera, ritiro spirituale o in modo straordinario come Mosè (Es 3, 1). Non è chiamato attraverso la mediazione della Parola come accadde a Samuele (1 Sam 3, 1) o attraverso l’animatore vocazionale; ma in tutt’altre faccende: la vita di ogni giorno, il lavoro. Questo perché la vocazione non è solamente il progetto generale della propria vita, pensato da Dio e faticosamente scoperto dal credente, ma soprattutto le singole chiamate giornaliere, sempre nuove e provenienti dalla stessa fonte, dalla medesima volontà d’amore che Dio ha nei nostri confronti e sempre orientate verso la piena realizzazione e felicità del nostro essere. È nell’esperienza della vita che incontriamo Dio, è nell’arco dell’esistenza che avvengono le continue chiamate. L’importante è essere vigili, saper “arare globalmente” (il numero dodici vuole indicare anche questa globalità), in pienezza per essere capaci di riconoscere la sua voce e pronti a rispondergli ogni giorno e tutto il giorno: “Ogni vocazione… è “mattutina”, è la risposta di ciascun mattino a un appello nuovo ogni giorno” (NVNE, 26°).
Nel brano proposto non troviamo né il tempo né il luogo, perché non ha bisogno di citare quando la Vita (il mantello) ci passa accanto, “sopra”, perché quell’Eliseo può essere chiunque: ogni uomo e ogni donna, appartenenti ad ogni luogo e ad ogni parte del tempo: questi possono partecipare al carisma profetico di Elia (cfr Mc 1, 16-20; Mt 9, 9; Lc 9, 61-62). Tuttavia vi è un passaggio obbligato nella scoperta d’ogni progetto vocazionale che è legato all’identificazione del senso fondamentale dell’esistenza umana. In pratica Eliseo ha capito che la sua vita, la sua esistenza è un bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato. Infatti, questa sua logica lo accompagna a salutare, a congedarsi dai genitori che l’hanno portato alla vita come un dono (cfr 19, 20).
Simbolo di questa donazione della propria esistenza sono i buoi uccisi, il giogo che li teneva per l’aratura usato per il fuoco e la tavola imbandita per la gente (cfr 19, 21). È un gesto iniziale ma che segna il cammino di una scelta responsabile. Il cammino è luminoso per Eliseo (cfr Sal 119, 105; 132, 17), perché il Padre veglia su di lui, sorgendo prima del sole. Ed è proprio in questo viaggio che Eliseo viene confermato nel suo ministero che raccoglie l’eredità di Elia. È il viaggio della fedeltà. Elia parte per il suo ultimo viaggio ed Eliseo non desiste dal seguirlo manifestandogli la sua fedeltà e comunione di vita. Non è facile quello che la vita da profeta richiede: costanza, fedeltà, impegno e sarà più difficile, quando non abbiamo modelli, punti di riferimento. Eliseo decide di impegnarsi in questo cammino di fedeltà che segnerà il passaggio (il Giordano) del carisma profetico di Elia ad Eliseo.
I “due terzi dello Spirito” (2, 9) richiede Eliseo ad Elia, evoca il diritto di primogenitura: “Dovrà riconoscere come primogenito il figlio della donna meno amata, e, fra tutto quel che possiede, gli darà il doppio rispetto all’altro. Questo infatti è il suo primo figlio e ha il diritto del primogenito” (Dt 21, 17). Eliseo vuol essere riconosciuto discepolo primogenito di Elia. È una richiesta esigente! (cfr 2, 10).
La condizione per diventare profeta simile ad Elia è un’intensa esperienza di Dio, per parlare di Dio al popolo, bisogna fare prima un’intensa esperienza di Lui, un’intensa esperienza contemplativa: dice infatti Elia “se mi vedrai” (2, 10). Eliseo deve fare questa esperienza, deve vedere.
Elia viene rapito, assunto in Dio, nella passione di Dio (il carro di fuoco). Egli è l’uomo vivente in Dio.
Eliseo vive questo distacco dal suo padre spirituale: “non lo vide più”, ma gli rimane il mantello, la vita di Elia, il suo stile di vita da imitare come un discepolo fedele.
Questa è l’esperienza di vita di Eliseo che in Elia “è stato generato”, ha raccolto la sua paternità spirituale per poter iniziare una vita nuova. Simbolo di questo inizio sono le vesti che Eliseo lacera (2, 12), per indossare le vesti di Elia che lo ha generato al ministero profetico. Lo assume come modello, si ispira a lui. Tanto è vero che il seguito del brano racconta il viaggio di ritorno di Eliseo, passando dalle stesse difficoltà di Elia fino al Carmelo e vivendo come Elia (cfr 2 Re 4, 5; 6-8; 13, 14-21).
La vocazione di Eliseo ci ricorda ancora oggi che siamo stati voluti “ad immagine e somiglianza di Dio” (Dt 1, 26-27) e inoltre, chiamati a diventare immagine di Dio attraverso la comunione con Cristo, conformandosi sempre più a Cristo che è la vera immagine di Dio, associandoci sempre più a Cristo diventiamo immagine di Dio. Il conformarsi a Cristo è un dono ed un impegno che ci accompagnano nella vita. Leggiamo in 2 Cor 3, 18: “E noi tutti a viso scoperto… veniamo trasformati in quella medesima immagine”.
Paolo ci fa capire che non abbiamo bisogno di aspettare la fine dei tempi per essere conformi all’immagine di Cristo risuscitato. È vero che la sua conformazione piena e definitiva avverrà solo alla fine. Giovanni dice “Noi fin d’ora siamo figli di Dio… Sappiamo perciò che… noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3, 2), ma è anche vero che già sulla terra, attraverso la propria esperienza di fede, l’uomo viene progressivamente trasformato dal di dentro e reso capace di contemplare in Gesù la presenza della gloria divina.
Questo ci deve far corrispondere sempre più al nostro battesimo, impegnandoci responsabilmente, perché tutti chiamati ad accettare e approfondire – come ha fatto Eliseo – quello che veramente siamo.
Elia nella tradizione ebraica
Elia nella tradizione ebraica
Elia nella liturgia ebraica è presente nel rito di Pesach: un posto è lasciato vuoto proprio per richiamare la sua presenza. Racconta Chouraqui: “il mondo in cui noi vivevamo era popolato da presenze ineffabili di cui eravamo i soli a conoscere il segreto. Il profeta Elia quindi era seriamente atteso in ogni pasto di Pasqua, in ogni famiglia. Gli si preparava sedia e coperto”.
Narrano le leggende ebraiche che la pelle del capro sacrificato da Abramo servì ad Elia come cintura. Elia è considerato il patrono degli studenti della Torah e interviene nelle difficoltà legate allo studio “Si conserverà tutto questo così fino alla venuta del profeta Elia” afferma il trattato talmudico delle Benedizioni (24a). Ruolo di maestro e guida che anche i carmelitani sottolineeranno.
Nel rito della circoncisione Elia è considerato presente. Edith proprio nel giorno in cui la Chiesa fa memoria della circoncisione di Gesù, ricevette il Battesimo.
Negli ultimi giorni sarà ancora Elia che raccoglierà il popolo sparso sulla terra: “Se i vostri sono ai quattro angoli del cielo, da là le parole del Signore, vostro Dio, vi riuniranno alla voce di Elia, il grande prete e da là Elia vi condurrà per le mani del Messia Re”.
Elia nella tradizione mussulmana
Beato transito
Rapito in cielo mentre era ancora in vita
Elia, il Profeta rapito in Cielo
L’ascensione di Cristo al cielo ha un’anticipazione nella vicenda finale di un personaggio celebre dell’Antico Testamento, il profeta Elia. Egli era entrato in scena all’improvviso, solo con la sua parola, l’arma che egli impugnerà. Infatti quella sorta di libretto che racconta la sua storia, e che è presente a partire dal capitolo 17 del primo Libro dei Re fino al capitolo 2 del secondo Libro dei Re, si apre semplicemente così: “Elia, il Tisbita, uno degli abitanti di Galaad, disse ad Acab: Per la vita del Signore Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io” (1 Re 17, 1).
Contro il potere corrotto e violento di questo re, Elia, originario della Transgiordania, si ergerà armato della sola parola divina e per lui inizierà una vita di scontri, di incubi e persino di fuga. Ma egli non tacerà mai. Sfiderà sul monte Carmelo i sacerdoti del culto pagano introdotto dal re su sollecitazione dell’influente moglie fenicia Gezabele, un culto legato a Baal, il dio della fecondità (capitolo 18). Sfiderà la stessa coppia reale che aveva usurpato il terreno di un contadino, Nabot, facendolo condannare a morte con un processo-farsa (capitolo 21). Sfiderà i falsi profeti, succubi del regime, ma sarà pronto a venir incontro alla sofferenza e alla miseria di una povera vedova, con una serie di miracoli clamorosi (17, 7-24).
La lettura delle pagine bibliche sopra citate – simili spesso a un libro di “Fioretti” del primo dei grandi profeti – potrà rendere più vivo e colorito il volto di Elia, peraltro tanto amato dalla storia dell’arte, della musica (l’Elias di Felix Mendelssohn-Bartholdy, 1847) e della letteratura (il dramma Elija di Martin Buber, 1963). Noi ci accontentiamo ora di evocare due momenti della sua vita. Il primo è da collocare in una delle fasi più tragiche, quando l’implacabile regina Gezabele cerca a tutti i costi di eliminarlo.
Il profeta si rifugia al sud, nelle aspre solitudini del deserto sinaitico, e la sua fuga disperata (cerca persino di lasciarsi morire sotto un ginepro, mentre il sole incandescente lo consuma) si trasforma in un pellegrinaggio alle sorgenti della fede biblica.
Infatti egli sale sull’Horeb-Sinai e là riceve una nuova vocazione attraverso un’epifania divina sorprendente.
Dio non gli appare né nel vento gagliardo che spacca le rocce, né nel terremoto che sommuove il deserto e neppure nelle folgori di una tempesta. Il Signore si presenta, invece, come dice il testo ebraico, in una qòl demamah daqqah, che letteralmente significa “una voce di silenzio sottile” (19, 12). Ella, che aveva pensato sempre a un Dio potente e battagliero, deve imparare che il mistero divino si annida anche nella quiete, nel silenzio, nella pace.
Ritornerà, dopo questo incontro, per continuare la sua missione solitaria in Israele. Ma quel Dio che l’aveva lanciato in un’avventura così drammatica non lo abbandonerà più, neppure nell’istante estremo della morte. Attraversato il Giordano, le cui acque si aprono davanti a lui come era accaduto a Israele al tempo dell’ingresso nella terra promessa, Elia è catturato da un cocchio di fuoco, tirato da cavalli di fuoco, e, davanti al discepolo Eliseo, entra nell’infinito di quel Dio che aveva servito con passione, scomparendo nella fiamma e nel cielo. Sulla terra resterà il suo mantello, destinato a Eliseo in segno d’investitura.
Sei secoli dopo, nel II secolo a.C., un sapiente biblico, il Siracide, lo canterà così: “Sorse Elia profeta, simile al fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola…” (48, 1).
Di Mons. Francesco Ravasi
Come invocarlo
Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) e il profeta Elia
Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) e il profeta Elia
Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) ha molto amato il profeta Elia. Citiamo alcuni passi delle sue opere che ne mettono in risalto la figura:
Commentando un passo della Regola del Carmelo ella scrive:
“Meditare nella legge del Signore può essere una forma di preghiera quando assumiamo la preghiera nel suo ampio senso abituale. Ma noi pensiamo al vigilare nella preghiera come all’inabissarci in Dio, come è proprio della contemplazione, allora la meditazione ne è solo una via.
Vegliando in preghiera, esprime lo stesso che Elia disse con le parole: Stare davanti al Volto del Signore… La preghiera è guardare in alto al Volto dell’Eterno. Lo possiamo solo quando lo Spirito veglia nelle ultime profondità, sciolti da ogni attività e godimento terreno, che lo attutiscono. Essere vigilanti con il corpo non garantisce quest’essere vigilanti e la quiete, desiderata secondo la natura, non lo impedisce.
Non abbiamo il Salvatore solo nelle narrazioni dei testimoni sulla sua vita. Egli è presente a noi nel Santissimo Sacramento, e le ore di adorazione dinanzi al Massimo Bene, l’ascolto della voce del Dio eucaristico sono: meditare la Legge del Signore e vigilare nella preghiera nel contempo.
Elia ritornerà come testimone della rivelazione segreta, quando si avvicinerà la fine del mondo, nella lotta contro l’Anticristo per patire la morte dei martiri per il suo Signore”.
Ella parla del popolo ebraico:
La Chiesa era fiorita, ma lontano rimaneva
la massa del popolo, lontano dal Signore
e da sua Madre, nemico della Croce.
Esso erra qua e là e non può trovare riposo,
oggetto di scherno e di disprezzo:
Tale rimarrà fino all’ultima battaglia.
allora prima che la Croce nel cielo appaia,
prima ancora che Elia venga a radunare i suoi,
il Buon Pastore in silenzio percorrerà le nazioni.
“Nella sua festa che celebriamo al 20 luglio, il sacerdote va all’altare con i paramenti rossi… In questo giorno il convento dei nostri padri sul monte Carmelo, che racchiude la grotta di Elia, è meta di folte schiere di pellegrini: ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni gareggiano nell’onorare il grande profeta”.