Santa Elisabetta della Trinità

Profilo Biografico

Elisabetta Catez

Domenica mattina, 18 luglio 1880, Elisabetta Catez vede la luce in una baracca del campo militare d’Avor, vicino a Bourges, dove il padre, Giuseppe Francesco, è ufficiale col grado di capitano.

La nascita è preceduta da gravi preoccupazioni: i medici infatti hanno avvertito che il cuore del nascituro non batte più e che bisogna intervenire per salvare almeno la madre.

Gli sposi chiedono al Cappellano Chaboisseau di celebrare una Messa per ottenere da Dio un parto felice. Al termine della Messa viene al mondo – come ricorderà, poi, la signora Catez – una bambina sana, molto bella e vivace. La bimba riceve il Battesimo nello stesso campo militare, il 22 luglio successivo, festa di S. Maria Maddalena.

Vive serenamente la sua infanzia prima a Bourges, poi ad Auxonne, infine a Digione. Qui, il 20 febbraio 1883 nasce la sorellina Margherita: la piccola “Guite” sarà tanto dolce quanto Elisabetta, il “piccolo capitano”, è turbolenta! “È un vero diavolo; si trascina; ha bisogno ogni giorno di un paio di calzoncini bianchi!… Elisabetta, che parla così bene, ti divertirà molto, è una grande birichina”, scrive la mamma.

Ha solo 7 anni quando a breve distanza muoiono prima il nonno materno Rolland e, otto mesi dopo, il 2 ottobre, il padre, il fiero capitano, che, improvvisamente stroncato da una crisi cardiaca, muore nelle braccia della bambina.

Il suo animo sensibile recepì in profondità la sofferenza per il padre morente e il dolore che la sua morte portò nella famigliola così affiatata.

La signora Catez affronta la sua condizione di vedova con grande dignità e buon senso; si trasferisce in una casa più piccola e utilizza le risorse per assicurare alle figlie una formazione ed un’educazione rispondente alla loro posizione sociale e ai valori morali coltivati dalla famiglia.

Grazie alla sua sapiente opera, Elisabetta potè gradualmente volgere al meglio la potenzialità del suo carattere; così il dolore per la perdita del padre, l’amore tenerissimo verso la madre e il senso di responsabilità verso la sorellina consolideranno il lavorio su di sé per rispondere ai desideri della mamma e ai movimenti della grazia di Dio.

Tutti i testimoni concordano nell’affermare che tra la prima Confessione a 7 anni e la prima Comunione a 11 anni, Elisabetta cambiò progressivamente e radicalmente, tanto che a 11 anni il suo carattere si era totalmente modificato, senza che l’impegno da lei posto nel vincersi alterasse la sua naturale vivacità e gaiezza.

Chi la conobbe appena un anno dopo la sua prima Comunione non voleva credere che ella fosse stata così “terribile” come si diceva.

Già la sera stessa del giorno della sua prima Comunione, è molto colpita dalla spiegazione del suo nome, che la Priora del Carmelo – situato a pochi passi da casa sua – le diede: Elisabetta=casa o abitazione di Dio.

Corrispondeva correttamente all’esperienza da lei vissuta in quel giorno: un orizzonte meraviglioso e sempre più nuovo le si era dischiuso. Nessuna tempesta successiva potrà alterarne il ricordo e il “richiamo”.

Questi “episodi” non devono però creare in noi l’immagine di una ragazzina esteriormente troppo diversa dal normale o “strana”.

Se si escludono le lezioni al Conservatorio (iniziate a otto anni), Elisabetta non ha frequentato scuole. La signorina Irma Florey le dà, a casa, lezioni di formazione generale e letteraria. Questa formazione rimarrà abbastanza incompleta. Si devono certamente alle sue doti personali, più che alla scuola, la profondità del suo pensiero e la vivacità delle immagini nei suoi scritti.

Quanto alla musica, studia al Conservatorio ed ogni giorno trascorre molte ore al piano. Spesso partecipa attivamente ai concerti organizzati in città dal Conservatorio e dal grande Teatro di Digione, presso San Michele. La sua maestria precoce le varrà le lodi dei giornali locali. Probabilmente la madre intendeva avviarla all’insegnamento della musica, ma la strada di Elisabetta volge altrove!

A quattordici anni fa di se stessa questo “autoritratto”: “Senza orgoglio io credo che l’insieme della mia persona non sia da disprezzare. Sono bruna e, secondo il parere degli altri, abbastanza alta per la mia età. Ho due occhi neri scintillanti, le mie folte sopracciglia mi conferiscono un’aria severa. Il resto della mia persona è insignificante. I miei eleganti piedi potrebbero farmi soprannominare “Elisabetta dai lunghi piedi”… Questo il mio ritratto fisico.

Passando al morale, dirò che ho un carattere abbastanza buono. Sono gaia e, lo devo confessare, un po’ stordita. Ho buon cuore. Sono di natura civettuola. Si dice che bisogna esserlo un po’. Non sono pigra “io so che il lavoro rende felici”. Senza essere un modello di pazienza, so generalmente contenermi. Non ho rancore. Ecco il mio ritratto morale. Ho i miei difetti, e purtroppo poche qualità. Spero di acquistarne…”.

Si nota la simpatica sincerità di una ragazza che sa sorridere anche dei propri difetti, e la modestia di Elisabetta che non fa nessun accenno ai successi per le eccellenti qualità di pianista.

Va crescendo la sua maturità spirituale e la vita interiore che già la rende libera da tanti “valori” importanti per le sue coetanee e per la società che frequenta. Ciò le permetterà di non prendersela troppo quando, ingiustamente, le verrà tolto un prestigioso premio già assegnatole dalla giuria (il primo premio di piano al Conservatorio di Digione).

Elisabetta custodisce il suo cuore; ma non per questo è insensibile alle bellezze del creato; e neppure rifiuta la compagnia e il sano divertimento; ama i bei vestiti e per non gravare sull’economia familiare impara taglio e cucito e se li confeziona!

Nascita di una vocazione

Questa ragazza simpatica e disinvolta ha già superato, verso i tredici anni, una dolorosa fase di scrupoli. È capace di profondo raccoglimento e, alle soglie della sua giovinezza, si è consacrata interamente a Dio. Ecco il suo racconto: “Stavo per compiere 14 anni, quando una mattina nel ringraziamento della Comunione mi sentii spinta irresistibilmente a scegliere Gesù per mio unico Sposo, e senza indugio a Lui mi legai col voto di verginità. Non ci scambiammo parole, ma ci donammo l’un l’altra in silenzio, con un amore così forte, che la risoluzione di non appartenere che a Lui divenne in me definitiva”. (S 23)

Elisabetta è impegnata in una donazione totale che diventa sempre più la legge, l’opzione fondamentale della sua vita.

Questa scelta, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non produce né rifiuto della sua condizione sociale, né dicotomia tra la sua vita di società e la sua vita interiore.

Le persone più sensibili che la avvicinavano avvertivano in lei, dal suo sguardo, una “profondità” non comune. Una volta una signora le disse: “Elisabetta, tu vedi Dio!”

Conoscere l’esistenza del Carmelo fu per Elisabetta una questione “geografica”: la sua casa di Digione distava pochi metri dal Monastero, ed ella imparava il ritmo della giornata delle Monache dal suono della campanella che la raggiunge nelle stanze di casa sua. Una coincidenza? Certo è che il suo proposito di totale donazione a Dio la porta a considerare la vita religiosa come sbocco della sua vocazione che, ben presto, si preciserà come “chiamata al Carmelo”.

Ma quando parlò con la mamma della sua vocazione al Carmelo ne ebbe una risposta negativa che non ammetteva repliche; le fu proibito addirittura di frequentare il Carmelo! E nulla faceva prevedere la possibilità di un cambiamento.

Tuttavia la speranza di Elisabetta rimase solida e ferma la sua decisione. Esternamente e nella vita di ogni giorno ella si comportò come se il problema non esistesse. Continuò gli studi, l’impegno nelle opere parrocchiali, i viaggi, la partecipazione alla vita sociale con naturalezza e senza creare problemi in famiglia.

Gli anni passavano, ma il suo proposito non mutava: ella li viveva come una preparazione per la vita al Carmelo. Furono anni di sofferenza perché la chiamata di Dio si faceva via più chiara e il cammino spirituale si precisava sempre più in linea con la vita claustrale Carmelitana.

Finalmente (è il 26 maggio del 1899) “…dopo colazione – scrive Elisabetta – questa povera mamma mi ha interrogata, e quando ha veduto che le mie idee erano sempre le stesse, ha pianto molto, e ha detto che a ventun’anni non mi impedirà di partire;… Quanto ho ammirato la sua rassegnazione! È stata propriamente la Madonna che mi ha ottenuto questa grazia, poiché non avevo mai trovato la mamma così. Quando le ho vedute piangere tutte e due (mamma e sorella), anch’io ho pianto a dirotto. O mio Gesù! Bisogna che siate proprio Voi a chiamarmi e sostenermi… perché il mio cuore non si spezzi. Per risparmiare loro una lacrima, tenterei tutto;… ed invece sono propriamente io che le affliggo così!”

Si rivela qui la profonda umanità di Elisabetta e la sua squisita sensibilità: la gioia per l’ottenuto consenso non la distrae dal dolore della madre e della sorella.

E così sarà anche dopo la sua entrata al Carmelo; non teme di esprimere la calda tenerezza del suo cuore, di partecipare ed immedesimarsi con la mamma, la sorella (si sentirà mamma – più che zia – delle nipotine), le zie, gli amici.

Fin dalle prime volte che aveva trattato della sua entrata al Carmelo, la Madre Priora le aveva offerto di seguirla nelle fondazioni del Monastero di Paray-le-Monial e lei aveva accettato, senza fare cenno alle sue preferenze per il Carmelo di Digione e al bisogno di trovare già stabilita, nella piena regolarità, quella vita di solitudine e di preghiera cui si sentiva chiamata. La violenza che doveva fare a se stessa aumentava con l’avvicinarsi della sua entrata, ma lasciò che gli altri facessero di lei ciò che volevano.

Prima di lasciare definitivamente la sua casa, Elisabetta si inginocchia davanti alla fotografia del padre e gli chiede l’ultima benedizione. È il 2 agosto 1901, primo venerdì del mese: la mamma, la sorella e qualche amica l’accompagnano, prima, alla Messa e, poi, alla porta del Convento.

Dietro le porte della Clausura l’accolgono le nuove sorelle e la Maestra delle Novizie, Madre Germana di Gesù (che sarà presto anche Priora). Veste l’abito delle postulanti, e meraviglia tutti per il suo raccoglimento, la sua amabilità, per la gioia e la semplicità con cui svolge i compiti che le vengono richiesti.

La vita di una Postulante nel suo complesso è austera e molto diversa da quella vissuta fuori. Per Elisabetta non vi sono più il pianoforte, i viaggi…, deve adattarsi al ritmo della vita di comunità che ella trova molto impegnativa, ma entusiasmante e che vive con generosità.

Giunge così l’8 dicembre: dopo quattro mesi di postulandato, ha luogo la “vestizione” di Elisabetta. Secondo l’uso, ella passa la mattinata con la sua famiglia e le amiche nella casa esterna del Monastero.

Nel pomeriggio, indossando un abito da sposa, si presenta alla Vestizione religiosa che ha luogo nel coro: le viene dato il nome di “Elisabetta della Trinità”, nome che è un po’ la sintesi della sua spiritualità: essere l’abitazione dove la Trinità trovi accoglienza e dedizione totale.

Se i quattro mesi di postulandato erano stati pieni di luce e di consolazione, i mesi del noviziato sono piuttosto duri e penosi: l’aridità, gli scrupoli tornano a tormentarla. È nella nebbia, ha giorni di confusione, in certe ore c’è angoscia e tempesta. La sofferenza scuote la sua salute; ma lei continua il suo sforzo di non gravare sulle altre, tanto che nessuno si accorge del travaglio interiore.

La fede e la fiduciosa obbedienza la guidarono a confidarsi con la Madre Germana che la aiutava a leggere tali pene come mezzo di cui Dio si serviva per far si che conoscesse meglio se stessa, si perfezionasse nell’umiltà e si avvicinasse di più a Cristo.

Elisabetta annota: “Ecco il mio stato d’animo: per me è come se Dio non esistesse”, confida alla Madre Germana. Ed ad un’amica: “Non si viene al Carmelo per sognare contemplando le stelle. Vada a Lui con la pura fede!”

Anche nel ritiro che precede la Professione l’angoscia perdura, tanto che proprio alla vigilia della Professione, la Madre ritiene opportuno chiamare un confessore prudente per tranquillizzarla.

La mattina seguente – 11 gennaio 1903, festa dell’Epifania – suor Elisabetta emette la Professione perpetua, pronunziando i voti di povertà, castità ed obbedienza, davanti all’altare, ornato di fiori, della sala del capitolo, attorniata solo dalla comunità. Entro di lei sente risuonare la frase di S. Paolo: “Fratelli, vi scongiuro per la misericordia di Dio di offrire i vostri corpi come un sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, come vostro culto spirituale”, e intende viverla con gioia in risposta all’invito paolino.

Dopo la Professione Elisabetta rimane nell’ambito del noviziato, perché era usanza considerare le neo-professe come religiose che dovevano ancora perfezionarsi per un triennio, senza poter esercitare impegni di responsabilità.

Dopo aver superato la soglia del suo impegno definitivo con la professione, Elisabetta gode pienamente d’una profonda pace, d’una profonda gioia in Dio al quale continua abbandonarsi con una fedeltà e un ardore totali.

La propria vita, il personale cammino di perfezione non sono per la propria soddisfazione o sicurezza, sono per Gesù. E Gesù non è forse lo “sposo delle anime”? Non ha dato la vita per la sua Chiesa?

Suor Elisabetta non può trascurare questo mirabile disegno di Dio e sempre più si offrirà perché “l’amore trionfi” nelle anime, nella Chiesa. Perché ella è convinta, alla scuola di S. Giovanni della Croce, che quello stesso Amore che “spira” nella Trinità vuole parteciparsi agli uomini, ma è così misconosciuto e dimenticato!

Nei mesi della sua dolorosa malattia, diventerà sempre più evidente come la sua vocazione di “laudem gloriae” della Trinità si concretizzi in un vero martirio volontariamente accolto ed offerto in unione “trasformante” a Cristo.

La salute di Suor Elisabetta è rimasta discreta fino alla primavera del 1905; ma la terribile stanchezza, contro cui aveva lottato per mesi, comincia a prendere il sopravvento, e i terribili mal di stomaco, che le impedivano di nutrirsi regolarmente, non possono più esser tenuti nascosti.

Nessuno sospettava ancora la gravità del male, ma Elisabetta, il primo gennaio 1906, commentava l’assegnazione – fatta per estrazione – di S. Giuseppe come suo protettore per quell’anno: “S. Giuseppe è il protettore della buona morte e mi verrà a prendere per condurmi al Padre”.

Il medico lasciava sperare che questa crisi si sarebbe superata con riposo e aria buona; per questo le venne tolto anche l’ufficio di aiuto portinaia.

A metà quaresima, invece, si aggravano i sintomi del male, che tutti i biografi definiscono come morbo di Addison, allora inguaribile. Una serie di gravi disfunzioni, prima, e poi l’atrofia delle ghiandole surrenali le procurarono quei terribili sintomi – stanchezza fino quasi all’impossibilità di compiere movimenti, mancanza di appetito con nausea e vomito, violente coliche intestinali, diminuzione della resistenza alle infezioni (si manifesteranno ulcere dolorosissime), al freddo ecc…, depressione psichica, irritabilità, insonnia – che resero necessario il trasferimento nell’infermeria della comunità.

Nella domenica delle Palme una crisi più violenta del solito consiglia di amministrarle l’Unzione degli infermi.

Ma la crisi viene superata: per intercessione di S. Teresina riacquista l’uso delle gambe e può avere la consolazione di recarsi nel coretto dell’infermeria dove, oltre a partecipare, fin che le sarà possibile, agli atti comuni, cerca la forza per sopportare gli attacchi della malattia sempre più frequenti e intollerabili.

“Sono venuta a rifugiarmi nella preghiera del mio Maestro, perché soffro tanto e avevo bisogno della sua forza Divina!” spiega alla Madre che la trova tutta rattrappita in un angolo del coretto. Eppure ella continua a preoccuparsi degli altri, a mantenere il proprio equilibrio, anche se confida al medico:

“Questa notte ho tanto sofferto che sono stata tentata di gettarmi dalla finestra; ma mi sono detta: non è così che una Carmelitana deve soffrire”.

Alla Madre: “Soffro tanto che adesso capisco il suicidio. ma non si preoccupi. Dio veglia su di me”.

Elisabetta, che ha saputo amare e apprezzare con acuta sensibilità contemplativa la vita, accetta la sofferenza e la morte “trasfigurandole”: “Quando mi corico sul mio lettino, penso di salire sul mio altare e Gli dico: “Mio Dio, non preoccuparti!” Talvolta sento angoscia, ma allora mi calmo dolcemente e Gli dico: “Mio Dio, non importa””, confida alla Madre Maria di Gesù che era tornata a Digione per qualche tempo.

“Eccolo che viene!”

A metà agosto fa il suo ultimo ritiro, di cui lascia per obbedienza degli appunti; verso la fine di ottobre è costretta definitivamente a letto, totalmente esausta e ormai scheletrita.

È consapevole della fine vicina:

“Sento che la morte mi afferra…

Per la natura è talvolta penoso e t’assicuro che se mi fermassi qui, non sentirei che la mia viltà nella sofferenza. Ma questo non è che lo sguardo umano, e ben presto apro l’occhio della mia anima alla luce della fede, e la fede mi dice che è l’amore che mi distrugge, che mi consuma lentamente, e la mia gioia è immensa…”; e confida alla Madre di preferire – se le fosse dato di scegliere – fra un’estasi e la morte nell’abbandono del Calvario, quest’ultima; non per il merito ma per glorificare e rassomigliare al Divino Maestro.

Verrà esaudita!

Una lunga e dolorosissima agonia l’attende.

Riceve nuovamente l’Unzione degli infermi al mattino del 31 ottobre.

A mezzogiorno, sentendo suonare le campane, spera che siano il segnale della sua “partenza”, ma dovrà attendere ancora.

Conservò sino alla fine lucida la coscienza e tutto il suo spirito soprannaturale. La sete ardente, che non poteva essere alleviata perché non poteva inghiottire neppure l’acqua, rimandava la mente all’agonia di Cristo, ed ella giudicava questa somiglianza “una delicatezza infinita” del suo Sposo.

Spesso cercava di consolare le sorelle e raccomandava la mamma. Al medico che le aveva parlato dell’estrema debolezza del battito del polso dice:

“Fra due giorni, probabilmente sarò in seno ai miei Tre! È meraviglioso!”

Verso le prime ore del mattino del 9 novembre i suoi dolori si calmarono, ma i lineamenti alterati facevano presagire vicina la fine, per cui tutta la Comunità venne radunata attorno al suo letto.

Il volto si distese, gli occhi si aprirono per fissarsi in alto, e spirò senza che le sorelle potessero coglierne l’ultimo respiro: “Vado alla Luce, all’Amore, alla Vita!”, erano state le ultime parole che aveva potuto pronunciare qualche giorno prima.

Le sue esequie furono più una festa che un funerale; i sacerdoti e le persone amiche che vi parteciparono affermarono di aver provato, più che cordoglio, dolcezza e speranza.

P. Claudio Truzzi

Opera, pensiero, dottrina di Elisabetta della Trinità

Scrittrice

Suor Elisabetta ci ha lasciato degli scritti di vario genere, anche se è ovvio che ella non è una scrittrice di professione. Neppure ha avuto dei confessori o direttori autorevoli che le imponessero di scrivere su argomenti spirituali o di testimoniare le proprie esperienze, come capitò a Teresa d’Avila o a Teresa di Lisieux. Solo “Ultimo ritiro” sembra le sia stato chiesto da Madre Germana con una certa intenzione, cioè di potersene servire per l’eventuale circolare da spedire ai Carmeli dopo la morte, la cui imminenza era ormai a tutti evidente.

Nonostante che Elisabetta scriva, dunque, occasionalmente, i suoi scritti sono di grande importanza, soprattutto perché contengono un’alta esperienza di Dio e una dottrina spirituale che interessa tutti i cristiani, trattandosi di valori essenziali alla santità.

Elisabetta è molto spontanea e molto “vera” in ciò che redige. Poiché aveva un cuore pieno di tenerezza, apertissimo all’amicizia, umanamente e soprannaturalmente nobili – e specialmente pieno di Dio – i suoi scritti avvincono e interessano il lettore.

Certa la formazione umanistica generale di Elisabetta fu piuttosto elementare e lacunosa. Tutto ciò si riflette negli scritti dal punto di vista dell’ortografia, della grammatica, della redazione in genere. Queste cose non interessano se non gli studiosi; ma paradossalmente non fanno che evidenziare la distanza tra la povertà dello strumento letterario e la ricchezza, anche intellettuale, e della personalità e del messaggio di Suor Elisabetta.

I suoi scritti

Escursioni nel Giura (agosto-settembre 1895).
Diario (1899-90).
Poesie (n. 123).
Lettere (n. 342).
Elevazione alla SS. Trinità (21-11-1904).
Il Cielo nella fede (1906).
La grandezza della nostra vocazione (1906).
Ultimo ritiro di laudem gloriae (1906).

Gli scritti più conosciuti della Beata Elisabetta, che si sono conservati e che tanto ci informano sulla sua dottrina, sul suo modo di vivere e di pensare sono: il Diario, le Poesie, le Lettere e gli scritti: “Il Cielo nella fede” e “Ultimo Ritiro di Laudem gloriae”.

Il Diario

Circa il Diario che ella scrisse prima di entrare al Carmelo, di cui abbiamo all’inizio riportato qualche frase e qualche riflessione, gli studiosi ci dicono che si è conservato solo in parte.

Si pensa che quello che manca sia stato eliminato da Elisabetta stessa. Forse è la parte che tratta del rapporto tra lei e la mamma, circa la sua vocazione. Pare che la destinataria sia la stessa sorella Margherita.

Il Diario fu scritto nel 1899-1900. Elisabetta segnala in esso, in modo tutto speciale, le istruzioni e la prediche avute nella sua parrocchia durante le Missioni di quell’anno. Il tono e le finalità sono moralistici; vi si tratta dei “novissimi”, della conversione, della penitenza, della tentazione ecc… Sono le tipiche prediche di quei tempi.

Come disposizione di fondo ella rivela il forte desiderio di amare Cristo. Si tratta di un amore forte, appassionato, che richiede la totalità e la donazione di se stessi, di un Amore che vive della consapevolezza di essere a sua volta molto amata. Si fa sempre più forte in lei il desiderio e il gusto dell’adorazione eucaristica.

Questa passione d’amore accende il lei anche la passione per la gloria di Cristo e la salvezza dei suoi fratelli. Le pagine del Diario ci presentano una Elisabetta tutta avvolta da sentimenti di tenerezza filiale, da un amore appassionato per Cristo, cui spera potersi donare un giorno del tutto al Carmelo.

L’ultima pagina fa risuonare queste parole:

“Signore, che la mia vita sia un’orazione continua, che nulla mai possa distrarmi da te, né le preoccupazioni, né i piaceri, né la sofferenza. Che sia inabissata in te, che faccia tutto sotto il tuo sguardo. Prendimi Signore, prendimi tutta intera” (p. 589).

Le poesie

La Beata Elisabetta ci ha lasciato diverse poesie: ne scrisse dai suoi quattordici anni, cioè dal 1894 al 1906, anno della sua morte. Dal punto di vista letterario, dello stile, della tecnica della composizione, non hanno un vero valore.

Ella non aveva certo avuto una formazione letteraria adeguata: le mancavano gli elementi indispensabili per poetare in modo apprezzabile. Tuttavia, poiché la poesia stessa, nel suo fondo, è un colloquio interiore con un essere intensamente amato, sentito come interlocutore vivo e amico, anche quando si tratta di un fatto o di un oggetto, il suo valore va considerato anche sotto questo aspetto.

Da questo punto di vista le poesie di Elisabetta hanno un notevole valore di creazione, che serve assai per conoscere la sua personalità e la sua spiritualità. Ecco la sua posizione:

“I miei versi sono l’eco del mio cuore
e se manca loro l’armonia
o una dolce melodia
vi diranno sempre il mio amore” (Poesia 28).

La poesia mostra, nella persona umana, la capacità di spiritualizzare le cose, di attrarre anche il mondo esterno nel mondo interiore, rivestendolo di luminosità: è insomma una delle espressioni della dimensione spirituale dell’uomo.

Del resto Elisabetta è molto aperta, come si vede anche dalle lettere, alla natura, alle meraviglie del creato. Basta fermarsi, per comprenderlo, ad alcuni versi:

“Non dimenticherò mai
che fu a Carlipa
questo piccolo angolo del mondo,
che composi i miei primi versi”.

Oppure, ricordando la sua escursione al bacino di Lampy:

“Ti guardo laggiù nel profondo
della tua voragine, tra il verde
e l’incanto della natura,
o bacino di Riquet.
Com’è bello e riposante
questo paesaggio, mio Dio!
Come vorrei restare qui
dove l’anima si eleva al cielo!”

Queste le poesie dei primi tempi. Dopo qualche anno toccherà tematiche più importanti: ad esempio farà sentire il desiderio molto profondo di entrare al Carmelo.

La vocazione è contrastata, come già si sa, dalla mamma, che le proibisce di parlare con le Carmelitane; questo è per lei un dramma interiore, che caratterizza particolarmente i versi poetici di questo periodo. Quando la mamma le donerà il suo consenso, il cuore di Elisabetta si sente colmo di felicità. Lo esprime in una sua lunga poesia, colma di gratitudine verso la Vergine e il suo Cristo.

D’allora in poi il Carmelo è al centro delle sue composizioni: basta guardare alla poesia “La carmelitana”, già citata, che esprime tutto il suo pensiero personale. Varie poesie poi sono scritte per rallegrare una festa al Carmelo, per far gioire una sua consorella, per esprimere la letizia della vita comune: in tutte si sente la tenerezza di un amore vissuto come in una vera famiglia.

Particolarmente profondi sono i pensieri sul mistero che è stato al centro della sua vita mistica: l’inabitazione trinitaria e il mistero della nostra comunione con le tre Persone Divine.

Negli ultimi quattro mesi vissuti nell’infermeria, dedica ben 13 poesie alla Madre Germana, che parlano tutte della ricchezza dell’inabitazione trinitaria e della sua conformazione a Cristo Crocifisso. Il suo amore filiale per questa Madre sembra non avere limiti:

“…Se tu sapessi, Madre, che soave missione
l’Adorato Maestro un giorno m’ha affidato!
Attirarti dal cielo un torrente di grazie
che ti fissi per sempre nel centro dell’amore.
Egli vuole rinchiuderti dentro quella fortezza,
quell’abisso profondo ch’è il pio raccoglimento.
Questo il fiore che t’offrono con tanto grande affetto
le tue due figlioline che sono uno con te”.

Le poesie di Suor Elisabetta sono un mezzo indispensabile per conoscerla a fondo, siano esse elevazioni, preghiere, meditazioni sui misteri di Cristo o tenere effusioni verso la Vergine Maria: sono una rivelazione della sua personalità umana e spirituale.

L’epistolario

Elisabetta scrisse molte lettere: l’edizione italiana ne numera 287, oltre ad alcuni biglietti scritti a varie persone: certamente non ci sono rimaste tutte, perché si sa che alcune andarono perdute. Comunque, data la brevità della sua vita, sono proprio un numero considerevole.

Se è vero che nella lettera, nel rapporto vivo e immediato con le persone, si può generalmente conoscere la persona del mittente, quest’affermazione vale in particolare per le lettere di Elisabetta, considerato il suo tipo così affettivo, aperto, bisognoso di espandersi e di comunicare quello che sente dentro di lei.

Si avverte in lei molto bene che è un’anima prediletta, ricca di quei doni soprannaturali che il Signore ama elargire in particolare ad alcuni, e di profonde esperienze. Si avverte che è una persona guidata dallo Spirito Santo alla contemplazione della carità di Cristo, che supera ogni conoscenza.

Sembra che ella senta viva la consapevolezza di dover comunicare agli altri i doni che ha ricevuto: vuole non tenere rinchiuse per sé le sue ricchezze, ma ha bisogno di farne partecipi le persone che ama e che le vivono intorno.

Il contenuto elevato di quello che viene detto nelle sue lettere e il fascino che esse esercitano su chi le riceve, spiega il fatto che siano state conservate con cura: quello che contengono non è certo a livello comune. Le lettere di Elisabetta sono infatti di primaria importanza per la conoscenza del suo messaggio spirituale.

La corrispondenza prima di entrare al Carmelo, con le amiche che vivono nel mondo, ha un contenuto caratterizzato dai ricordi degli incontri avuti, dal racconto di viaggi, di luoghi visti insieme, di persone incontrate, di riunioni festose. Dopo l’entrata al Carmelo, pur conservando il rapporto con le antiche amicizie per quel tanto che è consentito al Carmelo, le sua corrispondenza cambia tonalità.

L’esperienza di Dio Trinità, presente ed operante nell’intimo della sua persona, la porta necessariamente a svelare i segreti di Dio. Nel raccontare questo, conserva la stessa spontaneità e la stessa apertura di cuore del tempo passato, ma l’oggetto dell’attenzione cambia. Basta ad esempio citare quello che scrive alla contessa de Sourdon:

“Amo tanto questo mistero che un pio autore ha chiamato “la discesa dell’amore” e penso che nella contemplazione di esso S. Paolo ha potuto dire: “Dio ci ha troppo amato…”” (L 219).

Ormai tutte le lettere sono su questo piano nettamente spirituale. Interessante in particolare, sotto il duplice aspetto umano e spirituale, le lettere che scrive alla mamma: queste lettere sono sempre più ricche di affetto, di tenerezza e di premure. Seppe confortarla, cercando di portarla verso altezze spirituali, quando la povera donna venne a sapere del terribile male della figlia.

“…Egli mi aiuta a soffrire e mi fa oltrepassare il dolore, per riposarmi in Lui…” (L 272).

E la mamma seppe stare all’altezza della grande prova!

Il Cielo nella fede

Elisabetta, gli ultimi mesi prima di morire, pensò di lasciare un piccolo scritto alla sorella, perché lo conservasse come suo ricordo, dopo la sua morte.

Le due sorelle si erano sempre volute molto bene ed erano cresciute insieme accanto alla madre, condividendo la stessa passione per la musica. Erano di temperamento molto diverso. Margherita aveva sofferto molto per la partenza della sorella al Carmelo; non l’aveva però ostacolata, anzi, alla sua partenza, l’aveva assai aiutata presso la mamma. Margherita, che aveva sposato l’impiegato di banca Giorgio Chevignard, aveva avuto nove figli: la maggiore venne chiamata Elisabetta.

Questo piccolo trattato prese in seguito questo nome ad opera della Madre Germana, cui l’autrice aveva consegnato lo scritto, da consegnare, dopo la morte, a sua sorella. Elisabetta spiega alla sorella la verità di cui ella vive e che capiva essere l’essenza della vita di grazia di ogni cristiano. Non è preoccupata di fare un’opera originale: vuole solo parlare al cuore della sorella, essendo ella stata “ascoltatrice” della Parola di Dio. Si può bene affermare che la sua dottrina non è che la riflessione sulla rivelazione biblica, e dell’esperienza che lei stessa ha avuto di questa rivelazione.

Il breve scritto è strutturato come un ritiro di 10 giorni, con 2 meditazioni al giorno. Il pensiero s’incentra sull’unione di Dio Trinità con l’anima, che tende a diventare sempre più intimo e totale. Al piccolo trattato è stato posto il titolo “Il Cielo nella fede”, perché per Elisabetta l’inabitazione trinitaria costituisce il nostro cielo, pur sotto il velo della fede.

Ultimo Ritiro

“Parto con la S. Vergine la sera della sua Assunzione per prepararmi alla vita eterna”, scriveva Elisabetta alla Madre Maria di Gesù, la Priora del tempo in cui ella era entrata al Carmelo.

“Nostra Madre mi ha fatto tanto bene dicendomi che questo ritiro sarebbe stato il mio noviziato del cielo, e che l’8 dicembre, se la Vergine mi troverà pronta, mi rivestirà della veste di gloria. La beatitudine mi attira sempre di più. Ormai tra il Maestro e me non si tratta che di questo e tutta la sua occupazione non mira che a prepararmi alla vita eterna” (L 259).

Questo Elisabetta lo scriveva il 14 agosto 1906. Il ritiro durò ben sedici giorni. Quando aveva chiesto alla Madre Priora il permesso di fare questo ritiro, lei stessa le aveva raccomandato di scrivere ciò che lo Spirito le avrebbe fatto intendere. Obbedì al desiderio della Madre, scrivendo ogni giorno quello che sperimentava nel cuore e nella sua anima. Consegnò il plico dello scritto alla Madre Germana giorni dopo, il 24 settembre, avvolgendolo in una carta su cui era scritto:

“Ultimo ritiro di laudem gloriae”.

Da quando infatti aveva letto, nella lettera agli Efesini di S. Paolo, che il Padre ci ha destinati a diventare “in laudem gloriae eius”, Elisabetta, illuminata interiormente, si appropriò di questo titolo (lasciando laudem all’accusativo, invece di “laus” al nominativo come andrebbe fatto: non conosceva il latino!) e trovò che esprimesse assai bene la sua vera vocazione, tanto da appropriarsene come suo nuovo nome: “lode di gloria della Trinità”.

Questo ritiro lo possiamo davvero considerare il suo testamento spirituale. Col corpo che andava a brandelli, guardandosi alla luce dell’eternità, sentiva più chiaramente che mai che la sua esistenza era tutta chiamata dall’alto a diventare questa lode di gloria. Su questo fatto portò in modo particolare la sua riflessione.

La verità che viene man mano esponendo, la sta in realtà vivendo. Da quale sorgente una tale realtà scaturisca, cosa sia necessario per attuarla, quali esigenze richieda, quale sia la sua efficacia nella Chiesa, sono gli aspetti essenziali della sua riflessione. Se nel disegno della salvezza Cristo sulla croce diventa la perfetta lode del Padre, anche ogni suo membro lo può diventare nel suo mistico Corpo. Egli, il Figlio, attrae e conforma al suo mistero di amore. Questa è la teologia esperienziale che Elisabetta vuole donare in questo suo ultimo ritiro: lo stile del Maestro che soffre e muore in croce, deve diventare quello della sua Sposa:

“Essa cammina sulla via del Calvario, alla destra del suo Re crocifisso, annientato, umiliato, eppure così forte sempre, così calmo, così pieno di maestà, che va alla passione per far risplendere la gloria della sua grazia, secondo l’espressione così forte di S. Paolo. Egli vuole associare la sua Sposa alla sua opera di Redenzione e questa via dolorosa dove essa cammina, le appare come la strada della beatitudine, non solo perché vi conduce, ma perché il Maestro santo le fa comprendere che deve oltrepassare ciò che vi è di amaro nella sofferenza, per trovarvi, come Lui, il suo riposo… Dio, chinandosi su quest’anima, sua figlia adottiva, così conforme all’immagine del suo Figlio Primogenito fra tutte le creature, la riconosce per una di quelle che Egli ha “predestinato, chiamato, giustificato” e si commuove nelle sue viscere di Padre, pensando a consumare la sua opera, cioè, a glorificarla trasferendola nel suo regno, per cantarvi, nei secoli senza fine, la lode della sua gloria” (UR).

Sono queste pagine che hanno nutrito tante persone nelle loro aspirazioni verso la santità stessa.

Autoritratto

PROFILO DI ME STESSA

 

Elisabetta della Trinità viene giustamente ritenuta una delle voci profetiche che lo Spirito Santo suscita affinché la Chiesa abbia più viva e costante la coscienza dell’abbondanza di doni di cui Egli stesso l’ha dotata.

Se si escludono le lezioni al Conservatorio (iniziate a otto anni), Elisabetta non ha frequentato scuole. La signorina Irma Florey le dà, a casa, lezioni di formazione generale e letteraria. Questa formazione rimarrà abbastanza incompleta. Si devono certamente alle sue doti personali, più che alla scuola, la profondità del suo pensiero e la vivacità delle immagini nei suoi scritti.

A quattordici anni Elisabetta fa di se stessa questo autoritratto:

“Senza orgoglio io credo che l’insieme della mia persona non sia da disprezzare. Sono bruna e, secondo il parere degli altri, abbastanza alta per la mia età. Ho occhi neri e scintillanti, le mie folte sopracciglia mi conferiscono un’aria severa. Il resto della mia persona è insignificante. Gli eleganti piedi potrebbero farmi soprannominare “Elisabetta dai lunghi piedi”… Questo il mio ritratto fisico.

Passando al morale, dirò che ho un carattere abbastanza buono. Sono gaia e, lo devo confessare, un po’ stordita. Ho buon cuore. Sono di natura civettuola. Si dice che bisogna esserlo un po’. Non sono pigra: “so che il lavoro rende felici”. Senza essere un modello di pazienza, generalmente so contenermi. Non porto rancore. Ecco il mio ritratto morale. Ho i miei difetti, e purtroppo poche qualità. Spero di acquistarne.”

Si nota la simpatica sincerità di una ragazza che sa sorridere anche dei propri difetti, e la modestia di Elisabetta: nessun accenno ai successi per le eccellenti qualità di pianista.

Va crescendo la sua maturità spirituale e la vita interiore che già la rende libera da tanti “valori” importanti per le sue coetanee e per la società che frequenta. Ciò le permetterà di non prendersela troppo quando, ingiustamente, le verrà tolto un prestigioso premio già assegnatole dalla giuria (il primo premio di piano al Conservatorio di Digione).

Cronologia

Antefatti di una vicenda

Risalendo nell’albero genealogico di Elisabetta Catez lungo il ramo paterno, incontriamo il nonno André Catez che prende in moglie Fidéline Hoël. Su tratta di una povera famiglia di agricoltori d’Aire-sur-la-Lys (Passo di Calais) che vedrà la nascita di 8 figli di cui Joseph è il quinto. Joseph perde il padre nel 1840 quando ha 8 anni e mezzo; la mamma gli muore nel 1876, mentre si trova lontano arruolato nell’esercito.

Invece dal lato materno troviamo il capitano Raymond Rolland e sua moglie Joséphine Klein che abitano a Saint-Hilaire (Aude) e avranno una sola figlia. Marie, nata a Lunéville (Lorena) sposerà il figlio orfano degli agricoltori Catez, il capitano Joseph.

Un matrimonio tra militari, all’insegna della rigida disciplina militare. In questo contesto nascerà Elisabetta. Non conoscerà i nonni paterni. Mentre quelli materni saranno i suoi Padrini di Battesimo. La nonna Joséphine è già molto malata quando i Catez si trasferiscono ad Auxonne nel maggio 1881, poi a Dijon. Muore l’8 maggio 1882. Elisabetta non la conoscerà… Ma conoscerà bene il nonno Raymond che, dopo la morte della moglie, va ad abitare in casa della figlia.

1880

18 luglio: Domenica mattina, durante l’ottava della solennità della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, Elisabetta Catez vede la luce in una baracca del campo militare di Avor, comune di Farges-en-Septaine (Cher) presso Bourges in Francia. Figlia di Giuseppe Francesco, ufficiale col grado di capitano e di Maria Rolland.

22 luglio: Festa di Santa Maria Maddalena, nella cappella del campo militare d’Avor, Elisabetta Catez riceve il lavacro battesimale ed è consacrata definitivamente tempio e cielo della Trinità. Le vengono imposti i nomi di Maria Giuseppina Elisabetta. Amministra il battesimo il Cappellano del campo Don Chaboisseau. Padrino e madrina di battesimo sono il comandante Raymond Rolland e sua moglie Joséphine Klein, nonni materni della piccola Elisabetta.

1881

10 maggio: La famiglia lascia il Campo d’Avor e va in Borgogna ad Auxonne a seguito dello spostamento della guarnigione del capitano Catez.

1882

9 maggio: Muore la nonna materna Joséphine Klein a Saint-Hilaire (Aude).

1° novembre: Nuovo trasferimento della famiglia Catez a Digione in una modesta abitazione in rue Lamartine.

1883

20 febbraio: Nasce la sorella Margherita detta “Guite”.
1885

2 giugno: Il capitano Catez, papà di Elisabetta va in pensione.

1887

24 gennaio: Morte del nonno Raymond Rolland.

2 ottobre: Muore improvvisamente il papà. Elisabetta ha appena sette anni e sua sorella Margherita quattro. La Signora Catez si trasferisce nella Parrocchia di San Michele, al numero 10 di via Prieur-de-la-Côte-d’Or. Vicino alla loro abitazione vi è il Carmelo nel quale Elisabetta sarebbe poi entrata.

1888

Elisabetta confida il suo desiderio di consacrazione religiosa a don Angles.

1890

8 maggio: Elisabetta sostiene l’esame di pianoforte presso il Conservatorio di Digione e suona l’Organo di Steibelt.

1891

19 aprile: Nella chiesa di San Michele a Digione, Elisabetta si accosta per la prima volta alla mensa Eucaristica. Nel pomeriggio visita per la prima volta il Carmelo. La priora le svela il segreto del nome ricevuto al Battesimo, Elisabetta: casa abitata da Dio!

8 giugno: Nella chiesa di Notre Dame a Digione, Elisabetta riceve il sacramento della Cresima.

1893

18 luglio: Elisabetta riceve il Primo Premio di solfeggio al Conservatorio di Digione.

25 luglio: Gli sforzi musicali di Elisabetta sono coronati da successo. Consegue, a soli 13 anni, il Primo Premio di pianoforte al Conservatorio della sua città.

1894

Primavera: A quattordici anni Elisabetta, un mattino alla fine della Messa, dopo aver ricevuto il Corpo di Cristo si sente irresistibilmente spinta a dedicare a Cristo tutta la sua vita e fa voto di verginità perpetua.

5 aprile: Esame di pianoforte. Elisabetta suona alla presenza del Maestro G. Fouré.

Maggio: Concerto di pianoforte. Elisabetta suona la II Rapsodia di Liszt.

1897

Sentendosi chiamata alla vita religiosa chiede alla madre il permesso di poter entrare al Carmelo, ma questa le oppone un netto rifiuto. Elisabetta continua a coltivare in cuore la sua vocazione e ad impegnarsi nell’apostolato per la salvezza delle anime.
1898

1° maggio: Elisabetta si reca in pellegrinaggio al Santuario di Nostra Signora di Domois nei pressi di Digione.

1899

26 marzo: “…dopo colazione – scrive Elisabetta – questa povera mamma mi ha interrogato, e quando ha veduto che le mie idee erano sempre le stesse, ha pianto molto, e ha detto che a ventun anni non mi impedirà di partire” per il Carmelo.

4 marzo – 2 aprile: I PP. Redentoristi predicano una “solenne” missione che coinvolge tutte le parrocchie di Digione a cui Elisabetta partecipa con slancio e fervore. Durante l’anno Elisabetta legge “Storia di un’Anima” di Teresa di Lisieux.

1900

Estate: Ultime vacanze di Elisabetta. Grande giro attraverso la Francia con la visita dell’Esposizione Universale di Parigi.

1901

2 agosto: Primo venerdì del mese; la mamma, la sorella Margherita e qualche amica accompagnano Elisabetta prima alla Messa e poi alla porta del Monastero delle Carmelitane Scalze, distante pochi metri da casa. Dietro le porte della clausura l’accolgono la Priora, le nuove sorelle e la Maestra delle novizie.

8 dicembre: Dopo quattro mesi di postulandato nel Monastero dell’Agonia di Gesù e del Cuore Addolorato di Maria nel pomeriggio indossando un abito da sposa, Elisabetta si presenta alla vestizione religiosa che ha luogo nel coro del Monastero e riceve il nome di suor Elisabetta della Trinità. Il rito è presieduto da Mons. A. Le Nordez, vescovo di Digione.

1902

15 ottobre: Matrimonio della sorella di Elisabetta della Trinità, “Guite” Margherita con Giorgio Chevignard.

1903

11 gennaio: Festa dell’Epifania, suor Elisabetta della Trinità emette la Professione religiosa.

21 gennaio: Secondo l’uso del tempo dopo qualche giorno si compie la cerimonia della velazione monastica.

1904

21 novembre: Elisabetta della Trinità si offre come “preda” alla Santissima Trinità con la sua celebre “Elevazione o preghiera alla SS. Trinità”: “O mio Dio, Trinità che adoro”.

1905

Elisabetta presenta i primi gravi sintomi della malattia: l’impossibilità di nutrirsi, di bere, l’astenia, i forti dolori gastro-intestinali, le cefalee, l’insonnia la relegano in un letto in breve tempo, con un corpo sempre più scheletrito, mentre aumentava il martirio della fame, della sete e del sonno.

1906

18 marzo: Elisabetta viene ricoverata nell’infermeria del monastero, a causa del morbo di Addison che la consuma rapidamente.

8 aprile: Elisabetta morente riceve l’Estrema Unzione. Qualche giorno dopo improvviso miglioramento.

13 maggio: Nuova grave crisi che compromette sempre più le precarie condizioni di salute di Elisabetta.

24 maggio: Solennità dell’Ascensione Elisabetta, “abitazione di Dio”, fu invasa dalla presenza della Trinità: visse fino alla morte ospitando al suo interno le tre Persone divine in un continuo “Consiglio d’amore” tra loro.

Estate: Obbedendo alla Priora, lascia per iscritto le note dei suoi ritiri, frutto di quei mesi terribili: “Il Cielo nella fede”.

16-31 agosto: Ultimo ritiro personale di Elisabetta. Il frutto di quei giorni si condenserà nel suo famoso scritto “Ultimo ritiro di Laudem gloriae”.

24 settembre: Elisabetta consegna a Madre Germana un plico avvolto in una carta su cui era scritto: “Ultimo ritiro di laudem gloriae”.

29 ottobre: Nel parlatorio del Monastero, Suor Elisabetta della Trinità, seppur molto malata, incontra per l’ultima volta la mamma, la sorella Guite e le nipotine.

31 ottobre: Elisabetta è ormai sfinita e si mette a letto definitivamente. Abbraccia il crocifisso della professione ed esclama: “Ci siamo tanto amati”.

1° novembre: Festa di Tutti i Santi, fa la comunione per l’ultima volta. Per Elisabetta pare giunta l’ultima ora e in quel giorno disse le sue ultime considerazioni: “Tutto passa! Alla sera della vita resta solo l’amore. Bisogna fare tutto per amore…”, poi per nove giorni visse in uno stato pre-comatoso con momenti di lucidità.

7 e 8 novembre: Elisabetta rimane quasi sempre in silenzio. Si riescono ad udire queste ultime parole molto intelligibili: “Vado alla Luce, all’Amore, alla Vita!…”.

9 novembre: Dopo una notte davvero penosa, apre gli occhi grandi e luminosi. Quasi senza che ci si accorga, Elisabetta smette di respirare alle sei del mattino e inizia la sua missione nel seno della Trinità.

“Mi sembra che in cielo la mia missione sarà quella di attirare le anime, aiutandole ad uscire da se stesse per aderire a Dio e di tenerle in quel grande silenzio, che permette a Dio di imprimersi in loro e di trasformarle in Lui stesso”.

12 novembre: Le sue esequie furono più una festa che un funerale; i sacerdoti e le persone amiche che vi parteciparono affermarono di aver provato, più che cordoglio, dolcezza e speranza.

Suor Elisabetta della Trinità è sepolta nel cimitero comunale di Digione. Pur essendo vissuta nel monastero poco più di cinque anni e di cui tre in una condizione di ammalata grave e irreversibile, quindi con pochi contatti con l’esterno, essa dopo morta godette subito di una fama di santità, che fece pensare ben presto alla sua glorificazione.

Elisabetta Catez – dopo la morte

1914

10 marzo: Morte della signora Catez, mamma di Elisabetta della Trinità.

1925

18 novembre: Morte di Giorgio Chevignard, marito di “Guite”.

1931

23 marzo: Si apre a Digione il Processo Informativo sulla fama di santità della giovane carmelitana. Le indagini si concludono il 31 gennaio 1941.

1954

7 maggio: Morte di “Guite”, sorella di Elisabetta della Trinità.

1961

25 ottobre: Il Beato Giovanni XXIII approva l’introduzione della Causa della Serva di Dio Elisabetta della Trinità presso la Congregazione dei Santi a Roma.

1962

22 giugno: Apertura del Processo Apostolico della Serva di Dio Elisabetta della Trinità presso la Congregazione dei Santi a Roma.

1979

Il Carmelo di Digione, dove ha vissuto la Beata Elisabetta della Trinità, si trasferisce a Flavignerot nelle vicinanze di Digione.

1982

12 luglio: Il Servo di Dio Giovanni Paolo II approva il Decreto sulle virtù vissute in modo eroico dalla Serva di Dio Elisabetta della Trinità, dandole il titolo di Venerabile.

1984

17 febbraio: Il Servo di Dio Giovanni Paolo II firma il Decreto di Beatificazione della Venerabile Elisabetta della Trinità.

10 settembre: Esumazione e trasporto dei resti mortali della Venerabile Elisabetta della Trinità dal Cimitero di Digione al Carmelo di Flavignerot.

25 novembre: Il Servo di Dio Giovanni Paolo II ascrive solennemente nell’Albo dei Beati la Venerabile Elisabetta della Trinità. In quell’occasione disse: “Noi osiamo oggi presentarla al mondo. Con la beata Elisabetta una nuova luce brilla per noi, una nuova guida certa e sicura si presenta”. Il Martirologio Romano riporta la celebrazione della memoria liturgica della Beata Elisabetta della Trinità al 9 novembre. Viene invece onorata come memoria dall’Ordine dei Carmelitani Scalzi nel giorno 8 novembre.

1° dicembre: Una settimana dopo la sua Beatificazione con una cerimonia particolare si procede alla Solenne Traslazione dei resti mortali della Beata Elisabetta della Trinità. Essi sono esposti alla venerazione dei fedeli nella cappella absidale nord della Chiesa Parrocchiale di San Michele a Digione.

2006

11 giugno: Solennità della SS. Trinità. A Digione apertura delle celebrazioni per il 1° Centenario della morte della Beata Elisabetta della Trinità, che termineranno con la solennità della SS. Trinità del 2007.

Beato Transito

Introduzione

 

L’anno dell’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo 1906, il 9 novembre, nel Monastero dell’Agonia di Gesù e del Cuore Addolorato di Maria, delle Carmelitane Scalze a Digione in Francia, la Beata Elisabetta della Trinità, entra nella vita. Dopo otto mesi di terribili sofferenze finì di consumarsi dolcemente alle sei del mattino. Inizia così la sua missione in seno alla Trinità.

La salute è minata

Tra il giugno e il luglio del 1903 si andò rivelando in lei una terribile malattia. Le diagnosi si susseguirono, come si susseguirono le varie cure.

Elisabetta sorrideva sempre, anche se si accorgeva che il vero male sfuggiva al controllo medico. Solo più tardi si sarebbe capito che si trattava del tremendo morbo di Addison.

I dolori andavano man mano crescendo e lo stomaco si rifiutava di prendere cibo. L’addome le dava l’impressione di essere una tana di bestie che la divoravano. Il corpo s’ischeletriva sempre di più, mentre aumentava il martirio della fame, della sete, del sonno.

Ma anche durante questa sua malattia era perfetta, come prima, nel sopportare tutto con pazienza e sottomissione.

La tentazione del suicidio

Nel 1905 le sue condizioni peggiorarono, per diventare disperate nel 1906. E col dolore fisico crebbe nella sua vita, profondo e lancinante, anche il martirio spirituale. Fu provata fortemente contro la fede in tali circostanze, tanto che un giorno disse alla priora: “C’è da credere che Dio non esista” ma non cedette mai a questa tentazione.

Notte e tenebre erano il suo pane quotidiano. Oscurità e spasimi. Chi la vedeva diceva di vedere in lei, anche fisicamente riflessa, l’immagine del Crocifisso: non sospettava che nella sua anima, come in quella di Gesù al Getsemani e sul Calvario, ci fosse l’agonia dell’abbandono, della solitudine e del vuoto.

Esperimentò tutto questo a un tale grado da sentirsi sospinta interiormente anche verso la tentazione del suicidio. Ma erano quelli i momenti nei quali intuiva di diventare veramente, come aveva sognato in vita: lode di gloria e di attuare il disegno di Amore in tutta al sua pienezza.

Un amore robusto non colorito di rosa

Eppure in quei giorni di grande dolore ebbe la forza ancora, e siamo nel settembre 1906, di scrivere alla mamma:

“Mai il buon Dio mi aveva fatto comprendere come ora, che il dolore è il più grande pegno di amore che egli possa dare alla sua creatura. Vedi, ad ogni nuova sofferenza, bacio la Croce del mio Maestro e gli dico: “grazie, non ne sono degna”, perché penso che la sofferenza fu la compagna della sua vita ed io non merito di essere trattata come lui dal Padre suo… Mamma cara, ricevi, alla luce che sgorga dalla croce, ogni prova, ogni contrarietà, ogni modo di comportarsi sgarbato. Oh, digli grazie per me, sono così felice, vorrei spargere un po’ di felicità su quelli che amo!” (L 263)

Elisabetta dice che l’amore alla sofferenza nasce necessariamente dalla lunga contemplazione della Passione. Lo afferma in varie sue lettere. Ed appunto perché ella ha contemplato così a lungo il Crocifisso, Gli ha reso con la sua vita una meravigliosa testimonianza. Non c’è in lei davvero nulla di morboso o di romantico, ma solo la Verità che nasce dalla Parola di Dio.

In una lettera ancora rivolta alla mamma, dice:

“C’è un Essere che è l’Amore e che vuole che viviamo “in società con Lui”. Oh mamma, è delizioso: egli è lì che mi tiene compagnia, che m’aiuta a soffrire, che mi fa oltrepassare il dolore, per riposarmi in Lui. Fai come me e vedrai come tutto si trasforma.” (L 273)

In realtà, guidata dall’insegnamento di S. Paolo, di S. Giovanni e di S. Giovanni della Croce, Elisabetta ha scoperto nelle profondità del mistero della Redenzione, una tale potenza della manifestazione dell’amore del Padre e di Cristo, che ne è rimasta abbagliata. Si è sentita attratta da questo vortice di Amore e nessun altro ideale le si è presentato, che quello di trasformarsi in Gesù Crocifisso. Elisabetta impara da Cristo a soffrire con interiore libertà e con tanta dignità.

Alle sue consorelle del Carmelo diceva che il Signore le chiedeva di soffrire con la dignità di una regina:

“Egli vuole associare la sua sposa alla sua opera di Redenzione e questa via dolorosa dove essa cammina le appare come la strada della Beatitudine, non solo perché vi conduce, ma perché il Maestro santo le fa comprendere che deve oltrepassare ciò che vi è di amaro nella sofferenza, per trovarvi, come lui, il suo riposo.” (UR, 5)

Ed ancora: “Se Nostro Signore mi offrisse la scelta tra la morte in un’estasi, o nell’abbandono del Calvario, scriveva, le mie preferenze sarebbero per questa seconda forma, non per il merito, ma per rassomigliargli… Ho l’impressione che il mio corpo sia sospeso e che la mia anima sia fra le tenebre; ma è l’Amore che opera questo. Io lo so e nel mio cuore ne giubilo… Se fossi morta nello stato nel quale la mia anima si trovava in altri tempi, sarebbe stato troppo dolce. È nella pura fede che me ne vado, e lo preferisco. Così rassomiglio di più al mio Maestro e sono maggiormente nella verità.”

Viveva il suo martirio come una grazia e un dono, senza ripiegarsi su di sé. Con lo sguardo ai suoi Tre, dai quali riceveva forza e coraggio, col cuore spalancato sul mondo e sulla Chiesa.

Qualche ora prima della morte, mormora tenendo sul petto la croce la sua confessione: “Ci siamo tanto amati”. Le sue esequie furono più una festa che un funerale: i sacerdoti e le persone amiche che vi parteciparono affermarono di aver provato, più che cordoglio, dolcezza e speranza.

L’antivigilia era stata udita mormorare:

“Vado alla Luce, all’Amore, alla Vita.”

Come invocarla

Che cos’è una Novena?

Dal Vangelo di Luca appare chiaro che la forza che animava gli apostoli era certamente lo Spirito Santo e ciò che dobbiamo considerare attentamente è come Egli sia sceso sopra di loro mentre erano riuniti insieme in una preghiera comunitaria seguendo l’insegnamento dato da Gesù: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).

Una Novena di preghiera e d’intercessione è dunque un’antica tradizione della Chiesa. Si ispira alla preghiera fatta con un cuore solo dagli apostoli, riuniti attorno a Maria nel Cenacolo, durante i nove giorni che separano l’Ascensione del Signore dalla discesa dello Spirito Santo il giorno di Pentecoste (At 2,1-4).

Questa perseveranza nella preghiera fu suggerita anche da San Paolo: “Pregate continuamente…” consigliava ai Tessalonicesi ben sapendo come una richiesta continua, e fiduciosa, sia il mezzo migliore per ottenere quanto desiderato. Si ricorda, a proposito, anche la parabola dell’amico importuno (Lc 11,5-8) che, sorpreso dall’arrivo notturno di un amico, si rivolse ad un altro amico che si era già coricato richiedendo del pane; pane che gli venne concesso soltanto dopo una insistente preghiera.

Ogni Novena persegue un fine spirituale o materiale. Nessun aspetto della nostra vita è indifferente, e meno ancora straniero, al Padre Nostro che è nei Cieli. Egli ci accorda ogni grazia, ogni dono che favorisce la nostra crescita spirituale, a condizione che noi glielo chiediamo: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7,7; Gv 14,13-14; Lc 11,9-13).

Il nostro Padre celeste ama ricolmare i suoi figli di cose buone. Esaudisce le nostre preghiere a suo tempo, il che, naturalmente, non corrisponde sempre alle nostre attese. A modo suo non lascia alcuna preghiera inascoltata: anche se le risposte non sono le nostre, possiamo essere certi che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28). Una novena produce buoni frutti quando è fatta con fervore e nel totale abbandono alla volontà di Dio.

La Novena per la festa della Beata Elisabetta della Trinità ha inizio il 30 ottobre essendo la sua memoria liturgica l’8 novembre, ma la preghiera può essere fatta anche in ogni periodo dell’anno.

NOVENA ALLA BEATA ELISABETTA DELLA TRINITÀ

Preghiera per ottenere grazie attraverso l’intercessione della beata Elisabetta della Trinità e per la sua glorificazione.

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
O Dio, vieni a salvarmi. Signore, vieni presto in mio aiuto.
Gloria al Padre, Credo.

O Beata Elisabetta della Trinità,
nel grande amore che nutrivi per Dio
sei sempre stata vicina agli amici
ed alle loro necessità!
Ora che vivi in cielo dinanzi al volto del Signore
intercedi presso di Lui
per le necessità che ti affidiamo
(esporre la propria necessità…).

Insegnaci a vivere,
con fede e amore,
nel più profondo del cuore
con la Santissima Trinità.

Sorretti dalla forza del tuo esempio
irradieremo l’amore di Dio tra gli uomini
nelle circostanze della nostra vita
così da essere, come te, “lode della Sua Gloria”.

Recitare un Padre Nostro e tre Gloria.

Con approvazione ecclesiastica.

Preghiera da recitarsi per nove giorni consecutivi.

Per grazie ricevute, per invio di offerte e per informazioni, scrivere a:

Carmel de Dijon – 21160 Flavignerot – Francia carmel.flavignerot@wanadoo.fr

Spiritualità

Gocce di spiritualità elisabettiana

“Una mamma dolce e severa a un tempo e che ha saputo plasmare così bene il mio carattere difficile” (Diario -D- 81).

“Io cercavo di trattenere quest’ultimo e sì lungo respiro! Protettore della mia infanzia… ti prometto che gli anni non cancelleranno il ricordo di un padre amato” (Poesia -P- 37).

“Oh mamma, Colui al quale mi hai data è Amore e Carità e m’insegna ad amare come lui, mi dà il suo amore per amarti!” (Lettera -L- 141).

“Più il buon Dio chiede, più porta e dona” (L 143).

“Sappi bene che colui che mi ha presa tutta per sé, mi conserva tutta per te” (L 148).

“Mi sembra di amarti come si ama in cielo, che non ci possa essere separazione tra la mia mammina e me, perché Colui che possiedo dimora in lei e noi siamo così vicine” (L 170).

“Ti posso dire che quando stavo accanto a te non sapevo di amarti tanto. Mi sembra che il cuore, che Dio ha fatto così amante, si sia dilatato” (L 265).

“Vedi mi sembra che il mio amore per te non sia soltanto quello di una bimba per la migliore delle mamme, ma anche quella di una mamma per la sua figliolina” (L 273).

“Anche quando si è contrariati, si può essere ugualmente felici. Bisogna sempre guardare al buon Dio. Agl’inizi bisogna fare degli sforzi poiché si sente tutto ribollire in sé, ma lentamente, a forza di pazienza e con l’aiuto del buon Dio, si viene a capo di tutto” (L 123).

“Com’è difficile sopportare i differenti caratteri! Un santo l’ha chiamato il fiore della carità. D’ora innanzi, o mio Gesù, non uscirà dalla mia bocca una parola contraria al prossimo; lo scuserò sempre, e, ingiustamente accusata, penserò a Voi, e saprò tutto sopportare senza lamentarmi” (P 49).

“Lei vorrebbe essere tutta sua, sia pur restando nel mondo, e ciò è molto semplice: egli è sempre con lei, sia sempre con Lui, attraverso le sue azioni, le sue sofferenze, anche quando il suo corpo è spezzato, rimanga sotto il suo sguardo, lo veda presente, vivente nella sua anima” (L 138).

“Quando il cuore è perso, cosa può venire a distrarlo? Il rumore sfiora solo la superficie, ma nel profondo non c’è che Lui” (L 50).

“Grazie, mio Dio, grazie dal profondo del cuore per avermi mostrato fin dalla giovinezza la verità delle cose di questo mondo, grazie per avermi attirato a te” (D 54).

“Si pensa che nel chiostro non si sappia più amare, ma è tutto il contrario e, per parte mia, non ho avuto mai più affetto che ora” (L 290).

“Dopo la comunione, possediamo tutto il cielo nella nostra anima, eccetto la visione!” (L 87).

“Riceverti ogni giorno e poi, da una comunione all’altra, vivere unita a te, in intimità, questo è il paradiso sulla terra!” (D 149).

“Pur nelle lacrime, io sento una calma, una dolcezza infinita. Ecco il segreto: dimenticarsi, abbandonarsi” (L 333).

“Colui che non cambia mai: ti ama oggi come ti amava ieri, come ti amerà domani” (L 257).

“Ecco ciò che egli ci chiede: l’amore che non pensa più a sé, ma si dimentica, sale più in alto dei suoi sentimenti, delle sue impressioni” (L 121).

“Quando il presente era così doloroso e l’avvenire mi appariva ancora più oscuro, chiudevo gli occhi e mi abbandonavo come un bambino nelle braccia di quel Padre che è nei cieli” (L 129).

“Quando la nostra anima sa credere a questo amore troppo grande che la investe, si può dire ciò che è detto di Mosè: fu costante perché vedeva l’invisibile” (Il Cielo nella Fede -CF- 20).

“Frutto del nostro amore sia l’abbandono” (L 168).

“Nei momenti in cui il coraggio deve farsi più forte per il sopraggiungere di una prova bisogna ricordarsi che: C’è un cuore di madre in cui puoi andare a rifugiarti, è quello della Vergine. Esso ha conosciuto tutti i tormenti, tutti gli strazi, eppure resta sempre calmo e forte perché appoggiato a quello del suo Cristo” (L 134).

“Siamo semplici… sempre nell’abbandono…, facendo la volontà del buon Dio senza ricercare cose straordinarie. Al mattino svegliamoci nell’amore, tutto il giorno abbandoniamoci all’amore, cioè adempiamo la volontà del buon Dio, sotto il suo sguardo, con lui, in lui, per lui solo. Quando poi viene la sera, dopo un dialogo d’amore che non è mai cessato nel nostro cuore, addormentiamoci nell’amore. Forse vedremo delle colpe, delle infedeltà: abbandoniamole all’amore: è un fuoco che consuma, facciamo così il nostro purgatorio nel suo amore!” (L 172).

“Ama la tua miseria, perché su di essa Dio esercita la sua misericordia e quando la vista di questa miseria ti getta nella tristezza che ti fa ripiegare su te stessa, questo non è che amor proprio” (L 324).

“Quando ci si presenta una grande sofferenza o un piccolo sacrificio, pensiamo subito che è la nostra ora, l’ora in cui possiamo provare il nostro amore a Colui che ci ha troppo amato” (L 308).

“Quando si vede tutto ciò che egli ha sofferto per noi nel suo cuore, nella sua anima, nel suo corpo, si avverte il bisogno di ricambiargli tutto questo; sembra che si vorrebbe soffrire tutto ciò che egli ha sofferto” (L 317).

“Oh, sapesse come si vive di fede al Carmelo, come l’immaginazione e il sentimento sono esclusi dal nostro rapporto con Dio!” (L 323).

“La mia felicità cresce sempre più, assume proporzioni infinite come Dio che è una felicità infinita, così calma, così dolce. Vorrei donarti il mio segreto: la fede. La verità ha detto nel vangelo: “Rimanete in me come io in voi” (Gv 15, 4). Allora con tutta semplicità, la carmelitana obbedisce ad un comandamento così dolce e vive nell’intimità con Lui che dimora in lei, che le è più presente di quanto non sia essa a se stessa. Tutto questo, mamma cara, non è sentimento né immaginazione: è fede pura” (L 239).

“Sii consolidata nella fede, cioè non agire se non sotto la grande luce di Dio, mai secondo le impressioni o l’immaginazioni. Credi che egli ti ama, che vuole aiutarti nelle lotte che devi sostenere. Credi nel suo amore, al suo eccessivo amore” (CF 11).

“Ho tentato di balbettare cosa significa amare: per me è la scienza dei santi e non voglio conoscerne altra” (L 235).

“E pensare che Dio ci ha tanto amati, mentre ci sono anime che si chiudono all’azione di questo amore!” (L 185).

“Cosa importa cosa sentiamo? Lui è l’immutabile, Colui che non cambia mai: ti ama oggi come ti amava ieri, come ti amerà domani” (L 298).

“Mi sembra che l’anima più debole, perfino la più colpevole, sia quella che ha più motivi per sperare e che l’atto che ella compie per dimenticarsi e gettarsi nelle braccia di Dio lo glorifichi e lo riempia di gioia più di tutti i ripiegamenti su se stessa e ogni altro esame che la fa vivere con le proprie infermità, mentre essa possiede in se stessa un Salvatore che la vuole purificare in ogni momento. Non dica che questo è troppo per lei, che è troppo miserabile, perché al contrario è una ragione in più per andare verso Colui che salva. Non è guardando alla nostra miseria che saremo purificati, ma guardando a Colui che è tutto purezza e santità” (L 249).

“Bisogna cancellare la parola scoraggiamento dal tuo vocabolario d’amore; più senti la tua debolezza, la difficoltà a raccoglierti, più il Maestro sembra nascosto, più devi rallegrarti perché allora tu dai a Lui, e non è forse meglio dare che ricevere quando si ama?” (L 298).

Elevazione alla Ss. Trinità

Elevazione alla Ss. Trinità

In questo 21 novembre 1904, festa della Presentazione di Maria al Tempio, Elisabetta trascorre tutto il suo tempo libero davanti al SS. Sacramento. La sera redige, alla luce della sua piccola lampada a petrolio, una preghiera su un piccolo foglio stracciato da un vecchio libretto. Sarà l’espressione fervente della sua decisione di abbandonarsi fino alla fine all’opera dello Spirito d’amore?

Questa preghiera, “Oh mio Dio, Trinità che adoro” annuncia all’inizio il suo desiderio contemplativo di essere per la Trinità una “dimora amata” dove Elisabetta, “tutta desta nella sua fede”, sarà presente “tutta intera”, trasportata “ogni minuto più lontano nella profondità del Mistero” di Dio. Che viaggio interiore!

E nel suo sogno d’amore, Elisabetta guarda un volto umano e ridice il Nome Benedetto: “Oh, mio Cristo amato, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il Vostro Cuore… amarvi fino a morirne!”

Anche una Elisabetta della Trinità sente ancora la distanza tra l’ideale e la realtà. “Dimenticarsi interamente”, non essere “che un raggio della Vita” del Cristo. Elisabetta ne conosce tutte le difficoltà ma anche la soluzione. Si abbandona “all’azione creatrice” di Dio. “Sento la mia impotenza e vi chiedo di rivestirmi di Voi stesso!”

Affinché avvenga questa rinascita, pronuncerà il sì totale di Maria, il giorno dell’Annunciazione: “Spirito d’Amore sopraggiungete in me!” E si farà “nella mia anima come un’incarnazione del Verbo: che io Gli sia un’umanità aggiunta, nella quale Egli possa rimanere tutto il mio Mistero”. Quando Gesù avrà riempito tutta la sua esistenza, Elisabetta sarà la gioia degli occhi del Padre, che riconoscerà in lei solo il Beneamato. Così si offre senza riserve ai suoi Tre, “come una preda”, per essere incandescente di quel “Fuoco consumante”, che non distrugge, ma completa e divinizza!

J. M. + J. T.
O mio Dio, Trinità che adoro

O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi completamente, per fissarmi in Te, immobile e tranquilla, come se la mia anima fosse già nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace, né farmi uscire da Te, o mio Immutabile, ma che ogni istante m’immerga sempre più nella profondità del tuo Mistero. Pacifica la mia anima, rendila il tuo cielo, tua dimora prediletta, luogo del tuo riposo. Che non ti lasci mai solo, ma che sia là tutta, interamente desta nella mia fede, tutta in adorazione, pienamente abbandonata alla tua Azione creatrice.

O mio Cristo amato, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo Cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti fino a morirne. Ma sento la mia impotenza, e ti chiedo di “rivestirmi di te”, d’identificare la mia anima a tutti i movimenti della tua anima, di sommergermi, d’invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un’irradiazione della tua Vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore.

O Verbo Eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi perfettamente docile per imparare tutto da Te. Poi, attraverso tutte le notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze, voglio sempre fissate Te e restare sotto la tua grande luce. O mio Astro amato, affascinami perché non possa più uscire dalla tua irradiazione.

O Fuoco consumante, Spirito d’amore, “discendi in me”, affinché si faccia nella mia anima come una incarnazione del Verbo e io gli sia una umanità aggiunta nella quale Egli rinnovi tutto il suo Mistero. E Tu, o Padre, chinati sulla tua povera piccola creatura, “coprila della tua ombra”, non vedere in lei che “il Prediletto nel quale hai posto tutte le tue compiacenze”.

O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa, di venire a contemplare, nella vostra luce l’abisso delle vostre grandezze.

Dieci giorni con Elisabetta della Trinità

“Il Cielo nella fede”
Note al testo

Elisabetta della Trinità, gli ultimi mesi prima di morire, pensò di lasciare un piccolo scritto alla sorella Margherita, perché lo conservasse come suo ricordo, dopo la sua morte.

Le due sorelle si erano sempre volute molto bene ed erano cresciute insieme accanto alla madre, condividendo la stessa passione per la musica. Erano di temperamento molto diverso. Margherita aveva sofferto molto per la partenza della sorella al Carmelo; non l’aveva però ostacolata, anzi, alla sua partenza, l’aveva assai aiutata presso la mamma. Margherita, che aveva sposato l’impiegato di banca Giorgio Chevignard, aveva avuto nove figli: la maggiore venne chiamata Elisabetta.

Questo piccolo trattato: “Il Cielo nella fede” prese in seguito questo nome ad opera della Madre Germana, cui l’autrice aveva affidato lo scritto, da consegnare, dopo la morte, a sua sorella. Al piccolo trattato è stato posto il titolo “Il Cielo nella fede”, perché per Elisabetta l’inabitazione trinitaria costituisce il nostro cielo, pur sotto il velo della fede.

Elisabetta spiega a Margherita la verità di cui ella vive e che capiva essere l’essenza della vita di grazia di ogni cristiano. Non è preoccupata di fare un’opera originale: vuole solo parlare al cuore della sorella, essendo ella stata “ascoltatrice” della Parola di Dio.

Si può bene affermare che la sua dottrina non è che la riflessione sulla rivelazione biblica, e dell’esperienza che lei stessa ha avuto di questa rivelazione.

“IL CIELO NELLA FEDE”

Il breve scritto è strutturato come un ritiro di 10 giorni, con 2 orazioni (meditazioni) al giorno. Ora ti offriamo il testo di Elisabetta in modo che tu lo possa leggere ed entrare in ritiro come ha fatto la sorella Margherita, per cui ti consigliamo di seguire passo passo il testo non leggendolo d’un fiato ma rispettando la scansione in esso prevista.

Il pensiero s’incentra sull’unione di Dio Trinità con l’anima, che tende a diventare sempre più intima e totale.

Primo Giorno – Prima orazione

“Padre, voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dato, affinché contemplino la gloria che tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17, 24).

Tale è l’ultima volontà del Cristo, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre suo. Egli vuole che là dov’è lui, siamo anche noi, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e sempre in progresso. Importa perciò sapere dove dobbiamo vivere con lui per realizzare il suo sogno divino. “Il luogo dov’è nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, l’essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana” (S. Giovanni della Croce, Cantico B, str. 1, 3).

È ciò che faceva dire ad Isaia: “Voi siete veramente un Dio nascosto” (Is 45, 15). E tuttavia la sua volontà è che noi siamo fissi in lui, che dimoriamo dov’egli dimora, nell’unità d’amore, che siamo per così dire come l’ombra di lui stesso. Per il battesimo – dice S. Paolo – “noi siamo stati innestati in Cristo” (Rm 6, 5). E ancora: “Dio ci ha fatto assidere nei cieli in Cristo per mostrare ai secoli futuri le ricchezze della sua grazia” (Ef 2, 6-7). E più avanti: “Non siete più degli ospiti o degli stranieri, ma siete della città dei santi e della casa di Dio” (ibidem, 2, 19).

La Trinità, ecco la nostra dimora, la nostra casa, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire più. Il Signore l’ha detto un giorno: “Lo schiavo non dimora sempre nella casa, ma il figlio vi dimora sempre” (Gv 15, 4).

Seconda orazione

“Dimorate in me” (Gv 5, 4).

È il Verbo di Dio che dà quest’ordine, che esprime questa volontà. Dimorate in me non per qualche istante, qualche ora che deve passare, ma “dimorate” in modo permanente, abituale. Dimorate in me, pregate in me, adorate in me, amate in me, soffrite in me, lavorate, agite in me. Dimorate in me per essere presenti ad ogni persona e ad ogni cosa. Penetrate sempre di più in questa profondità. Questa è veramente la solitudine dove Dio vuole attirare l’anima per parlarle, come cantava il profeta (Os 2, 14).

Ma per intendere questa parola piena di mistero, non bisogna fermarsi, per così dire, alla superficie, bisogna entrare sempre di più nell’Essere divino mediante il raccoglimento. “Continuo la mia corsa”, esclamava S. Paolo (Fil 3, 14).

Così noi dobbiamo discendere ogni giorno questo sentiero dell’abisso che è Dio. Abbandoniamoci già per questa china con una fiducia piena d’amore. “Abisso chiama abisso” (Sal 41, 8). È laggiù, in quelle profondità, che avverrà l’urto divino, che l’abisso del nostro nulla, della nostra miseria, urterà contro l’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio. È laggiù che troveremo la forza di morire a noi stessi e che, perdendo le nostre tracce, saremo cambiati in amore. “Benedetti coloro che muoiono nel Signore” (Ap 14, 13).

Secondo Giorno – Prima orazione

“Il Regno dei cieli è dentro di voi” (Lc 17, 21).

Poco fa Gesù c’invitava a dimorare in lui, nella sua eredità di gloria, ed ora ci rivela che non dobbiamo uscire da noi stessi per trovarlo. “Il Regno dei cieli è al di dentro!…”. S. Giovanni della Croce dice che “è nella sostanza dell’anima dove non possono arrivare né il demonio né il mondo, che Dio si dà a lei. Allora tutti i suoi movimenti divengono divini e, sebbene siano di Dio, son pure egualmente suoi perché N. Signore li produce in lei e con lei” (S. Giovanni della Croce, Fiamma B, str. 1, 9).

Il medesimo Santo dice che Dio è il centro dell’anima. Quando l’anima conoscerà Dio perfettamente, nella misura di tutte le sue energie, l’amerà e ne godrà interamente, allora sarà arrivata al centro più profondo che possa attingere in lui. Prima di essere arrivata fin là, l’anima è già in Dio, che è il suo centro, ma non ancora nel suo centro “più profondo”, potendo andare più oltre.

Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, più intenso è l’amore, più essa entra profondamente in Dio e si concentra in lui. Quando possiede un solo grado d’amore, è già nel suo centro, ma quando quest’amore avrà raggiunto la sua perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro “più profondo”.

È là che sarà trasformata a tal punto da divenire somigliantissima a Dio (ibidem, str. 1, 12-13). A quest’anima che vive “al di dentro” possono essere rivolte le parole del P. Lacordaire a S. Maddalena: “Non chiedete più del Maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, perché lui è la vostra anima e la vostra anima è lui”.

Seconda orazione

“Affrettati a discendere perché bisogna che oggi mi fermi nella tua casa” (Lc 19, 5).

“Il Maestro ridice incessantemente alla nostra anima queste parole che rivolgeva un giorno a Zaccheo. “Affrettati a discendere”. Che cosa è mai questa discesa che esige da noi, se non il penetrare più a fondo nel nostro abisso interiore?” (Ruysbroeck l’admirable, Oeuvres choisies, traduit par Ernest Hello, nouvelle édition précédée d’un avant propos de Georges Goyau, Paris, Perrin et C.ie, 1912, p. 4 – Vedi nota alla Lett. 241). Quest’atto “non è una separazione esterna dalle cose esteriori, ma una solitudine dello spirito” (ibidem, p. 118), un liberarsi da tutto ciò che non è Dio. Finché la nostra anima ha dei capricci estranei all’unione divina, delle fantasie di sì e no, restiamo allo stato d’infanzia, non camminiamo a passi di gigante nell’amore, perché il fuoco non ha ancora bruciato tutta la scoria, l’oro non è puro, siamo ancora i cercatori di noi stessi, Dio non ha consumato tutta la nostra ostilità a lui. Ma quando il ribollimento della caldaia ha consumato ogni amore vizioso, ogni dolore vizioso, ogni viziosa paura, allora l’amore è perfetto e l’anello d’oro della nostra alleanza è più largo del cielo e della terra. Ecco la cella segreta dove l’amore colloca i suoi eletti. “Quell’amore ci conduce attraverso tutti i meandri e i sentieri che lui solo conosce. Ci conduce senza ritorno e non rifaremo più la via percorsa” (Op. cit., pp. 157-159).

Terzo Giorno – Prima orazione

“Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e mio Padre l’amerà e verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora” (Gv 14, 23).

Ecco il Maestro che ci manifesta ancora il suo desiderio di abitare in noi. “Se qualcuno mi ama!” L’amore, ecco ciò che attira, che trascina Dio alla sua creatura. Non un amore di sensibilità, ma quell’amore “forte come la morte e che le grandi acque non possono estinguere” (Ct 8, 6-7). “Perché amo il Padre” (Gv 14, 31), “faccio sempre ciò che a lui piace” (ibidem 8, 29). Così parlava il Maestro santo ed ogni anima che vuol vivere a contatto con lui, deve vivere anch’essa questa massima. Il beneplacito divino dev’essere il suo nutrimento, il suo pane quotidiano, deve lasciarsi immolare da tutte le volontà di Dio ad immagine del suo Cristo adorato. Ogni circostanza, ogni avvenimento, ogni sofferenza come ogni gioia, è un sacramento che le dà Dio. Così essa non fa più differenza tra le cose, le scavalca. Le oltrepassa per riposarsi, al di sopra di tutto, nel suo Maestro stesso. Lo innalza ben alto sulla montagna del suo cuore. Sì, più in alto dei suoi doni, delle sue consolazioni, più in alto delle dolcezze che piovono da lui. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai se stesso, di non riservarsi nulla, ma di dare tutto a colui che si ama. Beata l’anima che ama nella verità. Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore!

Seconda orazione

“Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col 3, 3).

Ecco S. Paolo che viene a darci una luce per rischiarare il sentiero dell’abisso. Siete morti! Che altro significa questo, se non che l’anima che aspira a vivere a contatto con Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, dev’essere separata, spogliata, allontanata da tutte le cose (quanto allo spirito)? Quest’anima trova in se stessa una semplice inclinazione d’amore che va verso Dio. Sebbene passino le creature, è invincibile rispetto alle cose che passano, perché resta al di sopra di esse, vivendo per Iddio. “Quotidie morior” (1 Cor 15, 31). Muoio ogni giorno. Diminuisco, rinunzio ogni giorno più a me stessa perché il Cristo cresca e sia esaltato in me. Rimango piccola piccola in fondo alla mia povertà. Vedo il mio nulla, la mia miseria, la mia impotenza. Mi riconosco incapace di progresso, di perseveranza. Scorgo la moltitudine delle mie negligenze, dei miei difetti, mi guardo nello specchio della mia indigenza. Mi prostro nella mia miseria e, riconoscendola apertamente, la espongo davanti alla misericordia del mio Maestro. “Quotidie morior”. Ripongo la gioia della mia anima (quanto alla volontà, non quanto alla sensibilità) in tutto ciò che può immolarmi, distruggermi, abbassarmi, perché voglio far posto al mio Maestro. “Non sono più io che vivo, ma è lui che vive in me” (Gal 2, 20). Non voglio più vivere della mia propria vita, ma essere trasformata in G. C. affinché la mia vita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi su di me, possa riconoscere l’immagine del “Figlio diletto nel quale ha posto tutte le sue compiacenze” (2 Pt 1, 17).

Quarto Giorno – Prima orazione

“Deus ignis consumens”. Il nostro Dio – scriveva S. Paolo – è un fuoco divoratore (Dt 4, 24; Eb 12, 29), cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso tutto ciò che tocca. “Le delizie di quest’incendio divino si rinnovano nel nostro intimo attraverso un’attività che non si ferma mai, è l’incendio dell’amore in un mutuo eterno abbandono. È un rinnovamento che si compie ad ogni istante nel nodo dell’amore” (Hello, op. cit., p. 72). Certe anime hanno scelto quest’asilo per riposarvisi eternamente. Ecco il silenzio nel quale si sono in qualche modo perdute, liberate della loro prigione. “Navigano nell’oceano della Divinità senza che alcuna creatura sia loro d’ostacolo o di tormento” (cfr. Hello, op. cit., p. 74). Per queste anime la morte mistica, di cui ci parlava S. Paolo ieri, diviene così semplice, così soave! Pensano molto meno al lavoro di distruzione e di spogliamento che resta ancora da compiere, che a gettarsi nel focolare d’amore che arde in loro, cioè lo Spirito Santo, quello stesso amore che nella Trinità costituisce il legame tra il Padre e il suo Verbo.

Entrano in lui attraverso la fede viva e là, semplici e quiete, si lasciano da lui trasportare al di sopra delle cose, dei gusti sensibili, nella “tenebra santa” (cfr. Hello, op. cit., p. 145). Trasformate nell’immagine divina, vivono – secondo l’espressione di S. Giovanni – “in società” (1 Gv 1, 3) con le “Tre” adorabili Persone, in comunione di vita. Questa è la vita contemplativa. Contemplazione che conduce al possesso. “Questo possesso semplice è la vita eterna gustata nell’abisso senza fondo. È là che ci aspetta al di sopra della ragione, la tranquillità profonda dell’immutabilità divina” (Hello, op. cit., pp. 145-147).

Seconda orazione

“Sono venuto ad accendere il fuoco sulla terra e che altro desidero se non di vederlo divampare?” (Lc 12, 49).

È lo stesso divino Maestro che ci manifesta il suo desiderio di veder ardere il fuoco d’amore. In realtà tutte le nostre opere, tutti i nostri lavori non sono nulla davanti a lui. Noi non possiamo dargli nulla né soddisfare il suo unico desiderio che è quello di riscattare la dignità della nostra anima. Nulla gli è tanto gradito quanto il vederla crescere e divenire grande. Ora nulla può elevarla tanto quanto il divenire in qualche modo uguale a Dio. Ecco perché esige da lei il tributo del suo amore. Infatti la proprietà dell’amore è quella di rendere uguale, per quanto è possibile, colui che ama a colui che è amato. L’anima in possesso di quest’amore appare su un piano di uguaglianza con Gesù dal momento che la reciproca affezione rende tutto comune tra di loro.

“Vi ho chiamati amici perché ho manifestato a voi tutto quello che ho udito dal Padre mio” (Gv 15, 15). Ma per arrivare a quest’amore, l’anima dev’essersi prima completamente liberata. La sua volontà dev’essere dolcemente perduta in quella di Dio in modo che le sue inclinazioni, le sue facoltà non si muovano più che in questo amore e per quest’amore. Fo tutto con amore, soffro tutto con amore. Tale è il senso di ciò che cantava David: “A te serberò tutta la mia forza” (Sal 58, 10). Allora l’amore la riempie talmente e l’assorbe e la protegge così bene che essa trova dovunque il segreto di crescere nell’amore. Perfino attraverso le relazioni che ha col mondo, in mezzo alle sollecitudini della vita, ha il diritto di dire: “unica mia occupazione è l’amore” (S. Giovanni della Croce, Cantico B, str. 28, 8-9).

Quinto Giorno – Prima orazione

“Ecco, io sono alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, entrerò da lui e mangerò presso di lui, e lui con me” (Ap 3, 20).

Beate le orecchie dell’anima abbastanza sveglie, abbastanza raccolte per udire questa voce del Verbo di Dio. Beati altresì gli occhi di quell’anima che alla luce della fede viva e profonda possono assistere all’arrivo del Maestro nel suo intimo santuario. Ma che cos’è dunque quest’arrivo? “È un’incessante generazione, un’illuminazione senza posa. Il Cristo viene con i suoi tesori, ma è tale il mistero della rapidità divina che egli arriva continuamente, sempre per la prima volta come se non fosse mai venuto. Il suo arrivo, indipendente dal tempo, consiste in un eterno “presente”, e un eterno desiderio eternamente rinnova le gioie del suo arrivo. Le delizie che arreca sono infinite perché sono lui stesso. La capacità dell’anima dilatata dall’arrivo del Maestro sembra come uscire da se stessa per passare, attraverso le sue pareti, nell’immensità di Dio che arriva. Accade allora questo fenomeno che Dio, nell’intimo del nostro essere, riceve Dio che arriva, Dio contempla Dio! Dio, nel quale consiste la beatitudine” (Hello, op. cit., pp. 64-65).

Seconda orazione

“Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui” (Gv 6, 56).

Il primo segno dell’amore è che Gesù ci ha dato a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue. La caratteristica dell’amore è di dare sempre e di sempre ricevere. Ora l’amore di Cristo è liberale. Tutto quello che ha, tutto quello che è, lo dona. Tutto quello che abbiamo, tutto quello che noi siamo, lo eleva. Ci chiede più di quello che noi siamo capaci di dare da noi stessi. Ha una fame immensa, tale da volerci assolutamente divorare. Penetra perfino nella midolla delle nostre ossa. Più noi glielo permettiamo con amore, più ampiamente lo gustiamo. Sa che siamo poveri, ma non ne tiene alcun conto e non risparmia in noi nulla di nulla.

Si crea in noi il suo proprio alimento lui stesso, bruciando dapprima nel suo amore vizi, difetti e peccati. Poi, quando ci vede puri, arriva come un avvoltoio insaziabile, pronto a tutto divorare. Vuole consumare la nostra vita per cambiarla nella sua, piena di grazia e di gloria, preparata apposta per noi, solo che sappiamo rinunziare a noi stessi. Se i nostri occhi fossero abbastanza buoni per vedere questa appetenza del Cristo che ha fame della nostra anima, tutti i nostri sforzi non c’impedirebbero di precipitarci nella sua bocca aperta. Tutto questo ha l’aria di essere un’assurdità. Quelli che amano comprenderanno!

Quando riceviamo il Cristo con intima dedizione, il suo Sangue pieno di calore e di gloria cola nelle nostre vene e il fuoco s’accende dentro di noi assimilandoci alle sue virtù. Vive in noi e noi viviamo in lui. Ci dona la sua anima con la plenitudine della grazia per la quale l’anima permane nella carità e nella lode del Padre! L’amore attira a sé il proprio oggetto. Noi attiriamo a noi Gesù ed egli ci attrae a sé. Allora, trasportati al di sopra di noi stessi, nell’interno dell’anima, vivendo in Dio, andiamo incontro a lui, incontro al suo Spirito che è il suo amore. E quest’amore ci brucia, ci consuma, ci attira nell’unità dove ci attende la beatitudine. A questo guardava Gesù, quando diceva: “Ho desiderato ardentemente di mangiare con voi questa Pasqua!” (Hello, op. cit., pp. 151-152, 154; Lc 22, 15).

Sesto Giorno – Prima orazione

“Per avvicinarsi a Dio, occorre credere” (Eb 11, 6).

È S. Paolo che parla così. Egli dice ancora: “La fede è la sostanza delle cose che si devono sperare e la dimostrazione di quelle che non si vedono” (Id. 11, 1). La fede cioè ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che per mezzo di lei prendono consistenza nella nostra anima e vi sussistono prima che ne godiamo. S. Giovanni della Croce dice che essa ci serve di base per andare a Dio e che rappresenta il possesso allo stato d’oscurità, che essa sola ci può dare dei veri lumi su colui che amiamo e che dobbiamo accoglierla come il mezzo per arrivare all’unione beata. La fede riversa copiosamente nella nostra anima tutti i beni spirituali (S. Giovanni della Croce, Salita, Libro II, passim). Gesù Cristo, parlando alla Samaritana, indicava la fede, quando prometteva a tutti coloro che avrebbero creduto in lui, di dar loro “una sorgente di acqua viva zampillante fino alla vita eterna” (Gv 4, 14). Così dunque la fede ci dà Dio fin da questa vita, certamente coperto di quel velo di cui essa lo copre, ma sempre Dio stesso.

“Quando verrà ciò che è perfetto”, cioè la chiara visione, “ciò che è imperfetto”, vale a dire la conoscenza data dalla fede, “riceverà tutta la sua perfezione” (cfr. 1 Cor 13, 10). “Noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e noi vi abbiamo creduto” (1 Gv 4, 16). Qui sta il grande atto della nostra fede. È il mezzo per rendere al nostro Dio amore per amore. È “il segreto nascosto nel cuore del Padre” (Col 1, 26), di cui parla S. Paolo. Noi lo penetriamo finalmente e tutta la nostra anima trasalisce. Allorché essa sa credere a “questo troppo grande amore che è su di lei” (cfr. Ef 2, 4), si può dire quello che è detto di Mosè: “Era incrollabile nella sua fede come se avesse visto l’invisibile” (Eb 11, 27). Non si ferma più ai gusti ed ai sentimenti, poco le importa di sentire Dio o di non sentirlo, poco le importa che le dia la gioia o la sofferenza. Essa crede al suo amore. Più è provata, più la sua fede cresce perché sa andare al di là di tutti gli ostacoli per riposarsi nel seno dell’amore infinito che non può fare che opere d’amore. Così a quest’anima tutta vigilante nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo quella parola che egli rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvata” (Lc 7, 50).

Seconda orazione

“Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6, 22).

Che cos’è quest’occhio semplice di cui parla il Maestro se non quella “semplicità d’intenzione che raccoglie in unità tutte le forze disperse dell’anima e unisce a Dio lo spirito stesso? È la semplicità che dà a Dio onore e lode, che presenta ed offre a lui le virtù. Poi, penetrando e attraversando se stessa, attraversando e penetrando tutte le creature, trova Dio nella sua profondità. Essa è il principio e il termine delle virtù, il loro splendore e la loro gloria. Chiamo intenzione semplice quella che non mira che a Dio, a lui riferendo tutte le cose. È lei che colloca l’uomo alla presenza di Dio, è lei che gli dà forza e coraggio, che lo rende vuoto e libero da ogni timore, oggi e nel giorno del giudizio. È lo slancio interiore, il fondamento di tutta la vita spirituale, che mette sotto i piedi la cattiva natura, dona la pace e impone silenzio ai vani rumori che si fanno in noi” (Hello, op. cit., pp. 33-34). È lei che aumenta d’ora in ora la nostra divina rassomiglianza e poi, al di là di ogni intermediario, è ancora lei che ci trasporterà nelle profondità in cui abita Dio e ci darà il riposo dell’abisso.

L’eredità beata che l’eternità ci ha preparato, sarà il dono della semplicità. Tutta la vita degli spiriti, tutta la loro virtù, consiste, insieme con la divina rassomiglianza, nella semplicità e il loro riposo supremo attinge il vertice della gloria nella semplicità. Così, nella misura del proprio amore, ogni spirito possiede una ricerca di Dio più o meno profonda, nella sua stessa profondità. “L’anima semplice, elevandosi in virtù del suo sguardo interiore, rientra in se stessa e contempla il proprio abisso, il santuario dove è sfiorata dal tocco della Trinità santa. Penetra così nella sua profondità fino a toccare il fondo che è la porta della vita eterna” (Hello, op. cit., pp. 36-37).

Settimo Giorno – Prima orazione

“Dio ci ha eletti in lui prima della creazione del mondo perché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore” (Ef 1, 4).

La Santa Trinità ci ha creato a sua immagine, secondo l’esemplare divino di noi stessi che portava nel suo seno prima che il mondo fosse, in quel principio senza principio di cui parla Bossuet dopo S. Giovanni: “In principio erat Verbum” (Gv 1, 1), al principio era il Verbo. Si può aggiungere, al principio era il nulla, perché Dio nella sua eterna solitudine ci portava già nel suo pensiero. “Il Padre contempla se stesso nell’abisso della sua fecondità e in virtù di questo atto stesso del comprendersi, genera un’altra Persona, il Figlio, il suo Verbo eterno. In lui si trovava dall’eternità il prototipo di tutte le creature non ancora uscite dal nulla e Dio le vedeva e le contemplava, ciascuna nel suo proprio esemplare, in se stesso. Questa esistenza eterna che i nostri prototipi possiedono senza di noi in Dio, è la causa della creazione. La nostra essenza creata mira a raggiungere il suo principio. Il Verbo, lo splendore del Padre, è l’esemplare eterno sul quale sono modellate le creature nel giorno della loro creazione. Ecco perché Dio vuole che noi, liberandoci da noi stessi, tendiamo le braccia verso il nostro esemplare e arriviamo a possederlo, salendo verso di lui al di sopra di tutte le cose. Questa contemplazione apre all’anima orizzonti insospettati e le consente di possedere, in certo modo, la corona a cui aspira” (Hello, op. cit., pp. 67-69). Le ricchezze immense che Dio ha per natura, noi le possiamo conquistare mediante l’amore che fa vivere Dio in noi e noi in Dio. È in virtù di quest’amore immenso che siamo attratti nel fondo del santuario interiore dove Dio imprime in noi una certa immagine della sua maestà. È dunque grazie all’amore e in virtù dell’amore che possiamo essere immacolati e santi al cospetto di Dio, come dice l’Apostolo, e cantare con David: “Sarò senza macchia e mi guarderò dal fondo d’iniquità che è in me” (Sal 18, 14).

Seconda orazione

“Siate santi perché io sono santo” (Lv 19, 2).

È il Signore che parla così. “Qualunque sia il nostro genere di vita o l’abito che ci copra, ciascun di noi dev’essere il santo di Dio” (Hello, op. cit., p. 157). Chi è il più santo? “È colui che ama di più, che guarda maggiormente a Dio e soddisfa più pienamente il suo sguardo” (ibidem, p. 113). Come soddisfare le esigenze dello sguardo divino se non restando semplicemente e amorosamente volti verso di lui perché possa riflettere in noi la sua immagine, come il sole si riflette attraverso un limpido cristallo? “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen 1, 26). Tale fu il grande volere del Cuore di Dio. “Senza la rassomiglianza che vien dalla grazia, ci aspetta la dannazione eterna. Dal momento che Dio ci vede atti a ricevere la grazia, la sua libera bontà è pronta a farci il dono che imprime in noi la sua rassomiglianza. La nostra attitudine a ricevere la grazia dipende dalla pienezza interiore con la quale ci muoviamo verso di lui. Dio allora, portandoci i suoi doni, può donarci se stesso ed imprimere in noi la sua rassomiglianza spezzando le nostre catene e facendoci liberi” (Hello, op. cit., p. 48). La più alta perfezione in questa vita, dice un pio autore, consiste nel restare talmente uniti a Dio che l’anima con le sue facoltà e potenze sin tutta raccolta in lui e tutte le sue affezioni, unificate nella gioia dell’amore, non trovino riposo che nel possesso del Creatore (cfr. ibidem). L’immagine di Dio impressa nell’anima è in realtà costituita dalla ragione, la memoria e la volontà. Finché queste facoltà non portano l’immagine perfetta di Dio non rassomigliano ancora a lui, come nel giorno della creazione.

La forma dell’anima è Dio che deve imprimersi in lei come il sigillo sulla cera, come la marca sul proprio oggetto. Ora questo non si realizza in pieno se la ragione non è completamente illuminata dalla conoscenza di Dio, se la volontà non è tutta incatenata all’amore del Bene sovrano, se la memoria non è totalmente assorbita nella contemplazione e il godimento della felicità eterna. Allo stesso modo che la gloria dei Beati non è altro che il possesso perfetto di questo stato, così è chiaro che il possesso incipiente di questi beni costituisce la perfezione in questa vita. Per realizzare quest’ideale, occorre tenersi raccolti dentro di sé, stare in silenzio alla presenza di Dio, mentre l’anima s’inabissa, si dilata, s’infiamma e si fonde in lui con una pienezza senza limiti.

Ottavo Giorno – Prima orazione

“Quelli che Dio ha conosciuto nella sua prescienza, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo divino. Quelli che ha predestinato li ha chiamati; quelli che ha chiamati li giustifica; quelli che giustifica, li glorifica. Che cosa diremo dopo tutto questo? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi ci separerà dalla carità di Gesù Cristo?” (Rm 8, 29-31, 35).

Tale appariva allo sguardo illuminato dell’Apostolo il mistero della predestinazione, il mistero dell’elezione divina. “Quelli che ha conosciuto”. Non siamo stati anche noi di questo numero? Non può dire Dio alla nostra anima quello che diceva un tempo per bocca del suo profeta: “Son passato in mezzo a voi e vi ho considerati. Ho visto che era venuto il tempo per voi d’essere amati, ho steso sopra di voi la mia veste, ho giurato di proteggervi, ho fatto alleanza con voi e siete divenuti miei” (Ez 16, 8)? Sì, siamo divenuti suoi mediante il battesimo. È ciò che vuol dire S. Paolo con quelle parole: “Li ha chiamati”. Sì, chiamati a ricevere il sigillo della S. Trinità. Nel medesimo tempo in cui, secondo le parole di S. Pietro, “siamo stati fatti partecipi della divina natura” (2 Pt 1, 4), abbiamo ricevuto “un principio del suo essere” (Eb 3, 14). …Poi ci ha giustificati per mezzo dei suoi sacramenti, col tocco diretto del suo spirito nel raccoglimento intimo dell’anima. Ci ha pure giustificati per la fede (Rm 5, 1) e nella misura della nostra fede, nella Redenzione operata da Cristo.

Infine, vuole glorificarci e per questo, dice S. Paolo, “ci ha resi degni di partecipare all’eredità dei santi nella luce” (Col 1, 12). Ma saremo glorificati nella misura in cui saremo stati conformi all’immagine del Figlio suo divino. Contempliamo perciò quest’Immagine adorata, teniamoci senza posa sotto la luce che da lei emana affinché s’imprima in noi. Poi andiamo a tutte le cose con quell’atteggiamento dell’anima col quale vi andava il nostro Maestro santo. Realizzeremo allora la grande volontà per la quale Dio ha deciso “in se stesso” di “restaurare tutte le cose in Cristo” (Ef 1, 9-10).

Seconda orazione

“Mi sembra che tutto sia una perdita dal momento che so quanto sia trascendente la conoscenza del Cristo Gesù, mio Signore. Per il suo amore ho tutto perduto stimando tutte le cose come letame per guadagnare il Cristo. Ecco ciò che voglio: conoscere lui, aver parte alle sue sofferenze ed essere conforme alla sua morte. Proseguo la mia corsa sforzandomi di arrivare là dove mi ha destinato quando mi ha preso. Di questo solo mi preoccupo, di dimenticare quello che è dietro di me, di tendere costantemente a ciò che mi sta davanti. Corro dritto allo scopo, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato nel Cristo Gesù” (Fil 3, 8-14), cioè non voglio più altro che identificarmi con lui. “Mihi vivere Christus est – la mia vita è Cristo” (ibidem, 1, 21).

Tutta l’anima ardente di S. Paolo passa attraverso queste righe. Durante questo ritiro il cui scopo è quello di renderci più conformi al nostro Maestro adorato, meglio ancora, di fonderci così bene con lui da poter dire: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me e quello che ho di vita in questo corpo di morte mi viene dalla fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e si è dato per me” (Gal 2, 20), studiamo questo divino modello.

La sua conoscenza – dice l’Apostolo – “è così trascendente!” (Fil 3, 8). Quali sono state le sue prime parole entrando nel mondo? “Gli olocausti non vi sono più graditi, per questo ho preso un corpo. Eccomi, o Padre, per fare la vostra volontà” (Eb 10, 5). Durante i suoi 33 anni, questa volontà fu talmente il suo pane quotidiano che al momento di riconsegnare la sua anima nelle mani del Padre, poteva dirgli: “Tutto è consumato” (Gv 19, 30). “Sì, tutte le vostre volontà sono state compiute”. “Per questo vi ho glorificato sulla terra” (Gv 17, 4). In realtà Gesù Cristo, parlando ai suoi apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano, diceva loro: “Io non sono mai solo” (ibidem, 8, 16). “Colui che mi ha mandato è sempre con me perché fo sempre quello che a lui piace” (ibidem, 8, 29). Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio. Se talvolta queste volontà sono più crocifiggenti, possiamo dire senza dubbio col nostro Maestro adorato: “Padre, se possibile, che questo calice s’allontani da me”, ma subito aggiungeremo: “Non come voglio io, ma come volete voi” (Mt 26, 39). Con calma e forza, insieme col divino Crocifisso, saliremo poi anche noi il Calvario cantando nel profondo delle nostre anime e facendo salire verso il Padre un inno di ringraziamento perché quelli che camminano per questa via dolorosa son proprio coloro ch’egli “ha conosciuto e predestinato per essere conformi all’immagine del Figlio suo divino” (Rm 8, 29), il Crocifisso per amore!…

Nono Giorno – Prima orazione

“Dio ci ha predestinato all’adozione dei figli per mezzo di Gesù Cristo e in unione con lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia per la quale ci ha giustificati nel suo Figlio diletto nel quale abbiamo la redenzione per il suo Sangue, la remissione dei peccati, secondo le ricchezze della sua grazia che ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza” (Ef 1, 5-8).

L’anima, divenuta realmente figlia di Dio, secondo la parola dell’Apostolo, è mossa dallo Spirito Santo stesso. “Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, quelli sono figli di Dio” (Rm 8, 14). E ancora: “Non abbiamo ricevuto lo spirito di servitù per lasciarci ancora condurre dal timore, ma lo spirito d’adozione dei figli nel quale gridiamo: “Abba, Padre!” In realtà lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio. Ma se siamo figli, siamo anche eredi, dico eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo, se però soffriamo con lui per essere con lui glorificati” (ibidem, 8, 15-17). È per farci pervenire a quest’abisso di gloria che Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. “Guardate di quale carità ci ha gratificati il Padre concedendoci di essere chiamati figli di Dio, e di esserlo veramente!… Fin d’ora siamo figli di Dio e non si è ancora visto quello che saremo. Sappiamo che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui perché lo vedremo così com’è, e chiunque ha questa speranza in lui, si santifica come lui stesso è santo” (1 Gv 3, 1-3). Ecco la misura della santità dei figli di Dio, essere santo come Dio, essere santo della santità di Dio.

E questo vivendo a contatto con lui in fondo all’abisso senza fondo. “Al di dentro”. L’anima allora sembra avere una certa somiglianza con Dio che, pur trovando la sua delizia in tutte le cose, non ne trova mai tanta quanta in se stessa. Infatti egli possiede in sé un bene sovraeminente davanti al quale tutti gli altri spariscono. Così tutte le gioie che l’anima incontra, sono per lei altrettanti avvertimenti che la invitano ad assaporare il bene di cui è in possesso ed al quale nessun altro può essere paragonato… “Il Padre che è nei cieli” (Mt 6, 9) si trova in questo piccolo cielo che si è fatto al centro della nostra anima. È qui che lo dobbiamo cercare e soprattutto è qui che dobbiamo dimorare. Il Cristo diceva un giorno alla Samaritana che “il Padre cerca dei veri adoratori “in spirito e verità”” (Gv 4, 23). Per dare gioia al suo cuore, siamo noi quei grandi adoratori.

Adoriamolo “in spirito”, cioè teniamo il cuore e il pensiero fissi in lui, lo spirito pieno della sua conoscenza, mediante il lume della fede. Adoriamolo “in verità”, cioè con le nostre opere, perché è soprattutto attraverso le nostre azioni che siamo veri. Ciò equivale a far sempre, quello che piace al Padre di cui siamo figli. Infine, adoriamolo “in spirito e verità”, vale a dire per mezzo di Gesù Cristo e con G. C. perché egli solo è il vero adoratore “in spirito e verità”. Allora, saremo i figli di Dio e conosceremo di scienza sperimentale quelle parole d’Isaia: “Sarete portati al seno e vi si accarezzerà sulle ginocchia” (Is 66, 12). In realtà, tutta l’occupazione di Dio sembra essere quella di colmare l’anima di carezze e di segni d’affetto, come una mamma che solleva il suo bambino e lo nutre del suo latte. Oh! rendiamoci attenti alla voce del Padre nostro: “Figlio mio, egli dice, dammi il tuo cuore” (Pr 23, 26).

Seconda orazione

“Dio che è ricco in misericordia, spinto dal suo eccessivo amore, quando eravamo morti per i nostri peccati, ci ha reso la vita in Gesù Cristo… Poiché tutti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio, vengono giustificati dalla sua grazia attraverso la redenzione che è nel Cristo Gesù, che Dio ha prestabilito propiziazione per i peccati, mostrando al tempo stesso che egli è giusto e giustifica colui che ha fede in lui” (Rm 3, 23-26).

“Il peccato è un male talmente spaventoso che non è mai lecito commetterlo né per cercare un bene qualsiasi, né per evitare qualsiasi male. Ora noi abbiamo commesso un grande numero di peccati. Come possiamo non cadere in adorazione quando ci gettiamo nell’abisso della misericordia divina e gli occhi della nostra anima si fermano su questo fatto che Dio ha eliminato i nostri peccati?” (Hello, op. cit., p. 169). Egli lo ha detto: “Cancellerò tutte le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Ger 31, 34). “Il Signore, nella sua clemenza, ha voluto che il peccato si risolvesse in danno del peccato stesso ed ha trovato il mezzo di renderlo utile per noi, convertendolo nelle nostre mani in uno strumento di salvezza. Ciò non deve diminuire in nessun modo il nostro terrore del peccato, né il dolore d’aver peccato, ma i nostri peccati sono divenuti per noi una sorgente di umiltà” (Hello, op. cit., p. 170). Quando l’anima, “nell’intimo di se stessa, considera con occhi brucianti d’amore l’immensità di Dio, la sua fedeltà, le sue prove d’amore, tutti i suoi benefizi che nulla possono aggiungere alla sua felicità, e poi torna a guardare se stessa, vede le sue ribellioni contro questo Signore d’immensa potenza e prova orrore e disprezzo di sé. Non sa più come fare per detestare come vorrebbe le sue colpe. Allora non le resta che piangere davanti a Dio, suo amico, lamentandosi con lui che la violenza del disprezzo da cui è trascinata, non la umili tanto quanto sarebbe necessario. Si rassegna così alla volontà di Dio e trova la sua pace in questa abnegazione interiore, quella pace invincibile e perfetta che nulla turberà. Si è infatti precipitata in un tale abisso che nessuno potrà ricercarla fin là” (ibidem, pp. 97-98). Se “qualcuno mi dicesse di aver toccato il fondo e perciò di essere del tutto immerso nell’umiltà, non lo contraddirei e mi sembra inoltre che essere gettato nell’umiltà sia lo stesso che essere gettato in Dio, perché Dio è il fondo dell’abisso. È per questo che l’umiltà, come la carità, è sempre capace di crescere” (ibidem, p. 99). Infatti “questo fondo pieno d’umiltà è il vaso che occorre, il vaso capace della grazia, il vaso dove Dio la vuole versare” (ibidem). Mai l’umile collocherà Dio troppo in alto o se stesso troppo in basso. “Ma ecco la meraviglia: la sua impotenza si cambierà in saggezza e l’imperfezione dei suoi atti, sempre insufficienti ai suoi occhi, si riempie del più grande sapore della vita. Chiunque possiede un fondo di umiltà non ha bisogno di molte parole per istruirsi. Dio gli dice più cose di quelle che potrebbero essergli insegnate. I discepoli di Dio sono in questa posizione” (cfr. op. cit., p. 102).

Decimo Giorno – Prima orazione

“Si scires donum Dei!” (Gv 4, 10). Se tu sapessi il dono di Dio! diceva una sera (sic) il Cristo alla Samaritana. Ma che cos’è questo dono di Dio, se non lui stesso? Il discepolo prediletto ci dice che “egli è venuto nella sua casa e i suoi non l’hanno ricevuto” (ibidem, 1, 11), S. Giovanni Battista potrebbe ancora dire a tante anime: “In mezzo a voi – in voi c’è uno che voi non conoscete” (ibidem, 1, 26). “Se tu sapessi il dono di Dio!”…

Vi è una creatura che conobbe questo dono di Dio, una creatura che non ne perdette neppure una goccia, una creatura che fu tanto pura e luminosa da sembrare la luce stessa. “Speculum Iustitiae”: una creatura la cui vita fu così semplice e perduta in Dio che è quasi impossibile parlarne. “Virgo fidelis”: è la Vergine fedele: “colei che custodiva tutte le cose nel suo cuore” (Lc 2, 51). Si manteneva così piccola e raccolta alla presenza di Dio, nel segreto del tempio, che attirava su di sé le compiacenze della Trinità santa. “Poiché il Signore si è degnato di rivolgere lo sguardo alla pochezza della sua serva, tutte le generazioni mi chiameranno beata!” (ibidem, 1, 48). Il Padre, chinandosi sopra questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, ha voluto che fosse nel tempo la Madre di colui di cui egli è il Padre nell’eternità. Allora intervenne lo Spirito d’amore che presiede a tutte le operazioni di Dio e la Vergine disse il suo Fiat: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola” (ibidem, 1, 38). Si compì allora il più grande dei misteri e, per la discesa del Verbo, Maria fu per sempre la preda di Dio. Mi sembra che l’atteggiamento della Vergine, durante i mesi che trascorsero dall’Annunciazione alla Natività, sia il modello delle anime interiori, delle creature che Dio ha scelto per vivere al di dentro, nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quale pace, con quale raccoglimento Maria si avvicinava ad ogni cosa, faceva ogni cosa! Come anche le cose più banali erano da lei divinizzate! In tutto e per tutto la Vergine restava in adorazione del dono di Dio. E questo non le impediva di prodigarsi al di fuori, quando si trattava di esercitare la carità. Il Vangelo ci dice che Maria percorse in fretta le montagne della Giudea per recarsi dalla sua cugina Elisabetta (ibidem, 1, 39-40). La visione ineffabile che contemplava in se stessa non diminuì mai la sua carità esterna. Questo perché – come dice un pio autore – “se la contemplazione va verso la lode e verso l’eternità del suo Signore, essa possiede l’unità e non potrà perderla. Viene un ordine del cielo, ed essa si rivolge verso gli uomini, ha compassione di tutte le loro necessità, si china su tutte le loro miserie, bisogna che pianga e fecondi. Essa illumina come il fuoco, arde come la fiamma, assorbe e divora sollevando verso il cielo ciò che ha divorato. Quando ha compiuto la sua azione in basso, si eleva e riprende, ardendo del suo fuoco, la via verso l’alto!” (Hello, op. cit., p. 224).

Seconda orazione

“Noi siamo stati predestinati da un decreto di colui che opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà perché siamo la lode della sua gloria” (Ef 1, 11-12).

È S. Paolo che parla così. S. Paolo istruisce per mezzo di Dio stesso. Come realizzare questo grande sogno di Dio, questo suo volere immutabile rispetto alle nostre anime? Come rispondere, in altre parole, alla nostra vocazione e diventare perfette Lodi di gloria della Ss. Trinità? Nel cielo ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo, allo Spirito Santo, perché ogni anima è stabilita nel puro amore e non vive più della sua propria vita, ma della vita di Dio. Allora essa lo conosce – come dice S. Paolo – allo stesso modo che è da lui conosciuta (cfr. 1 Cor 13, 12). In altri termini, il suo pensiero è il pensiero di Dio, la sua volontà la volontà di Dio, il suo amore l’amore stesso di Dio. In realtà è lo Spirito d’amore e di forza che trasforma l’anima. È lui che opera questa gloriosa trasformazione dell’anima, essendo stato inviato a noi per supplire alle nostre deficienze, come s’esprime ancora S. Paolo (Rm 8, 26). Afferma S. Giovanni della Croce che l’anima abbandonata all’amore, per la virtù dello Spirito Santo, è quasi sul punto di elevarsi, fin da ora, a quel grado di perfezione di cui abbiamo parlato (cfr. S. Giovanni della Croce, Cantico B, str. 38, 2-3). Ecco ciò che chiamo una perfetta Lode di gloria.

Una Lode di gloria è un’anima che dimora in Dio, che lo ama d’un amore puro e disinteressato, senza ricercare se stessa nella dolcezza di quest’amore, che lo ama al di sopra di tutti i suoi doni come se nulla avesse ricevuto, fino a desiderare il bene dell’oggetto così amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente il bene di Dio, se non adempiendo la sua volontà? Quella volontà che ordina tutte le cose per la sua maggior gloria? L’anima di cui parlo deve perciò dedicarvisi pienamente, perdutamente, fino a non poter volere altro che ciò che vuole Dio.

Una Lode di gloria è un’anima di silenzio che si tiene come una lira sotto il tocco dello Spirito Santo per farne uscire delle armonie divine. Essa sa che la sofferenza è una corda che produce dei suoni più belli ancora ed ama farsene il suo strumento per commuovere più deliziosamente il cuore di Dio.

Una Lode di gloria è un’anima che fissa Dio nella fede e nella semplicità, è uno specchio che lo riflette in tutto ciò che egli è, è come un abisso senza fondo in cui egli può fluire ed espandersi. Ancora, è come un cristallo attraverso il quale egli può riflettere e contemplare tutte le sue perfezioni e il suo proprio splendore. Un’anima che permette così all’Essere divino di appagare in lei il suo bisogno di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che ha, è in realtà la Lode di gloria di tutti i suoi doni.

Infine, una Lode di gloria è sempre occupata nel rendimento di grazie. Ognuno dei suoi atti, dei suoi movimenti, ogni suo pensiero ed aspirazione, nel tempo stesso che la radicano più profondamente nell’amore, sono come un’eco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria i Beati non cessano mai giorno e notte di ripetere: “Santo, Santo, Santo il Signore onnipotente, e si prostrano e adorano colui che vive nei secoli dei secoli…” (Ap 4, 8). Nel cielo della sua anima, la Lode di gloria comincia già il suo ufficio dell’eternità. Il suo cantico è ininterrotto perché essa è sotto l’azione dello Spirito Santo che opera tutto in lei. Sebbene non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le permette di essere fissa in Dio senza distrazioni, canta sempre, adora sempre, è come passata tutta, per così dire, nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio.

Siamo anche noi, nel cielo della nostra anima, Lodi di gloria della Ss. Trinità, lodi d’amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno il velo cadrà, saremo introdotti nei vestiboli eterni e lassù canteremo nel seno dell’amore infinito. Dio ci darà allora il “nome nuovo promesso ai vincitori” (Ap 2, 17). Quale sarà?! Laudem gloriae.

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