“Il Cielo nella fede”
Note al testo
Elisabetta della Trinità, gli ultimi mesi prima di morire, pensò di lasciare un piccolo scritto alla sorella Margherita, perché lo conservasse come suo ricordo, dopo la sua morte.
Le due sorelle si erano sempre volute molto bene ed erano cresciute insieme accanto alla madre, condividendo la stessa passione per la musica. Erano di temperamento molto diverso. Margherita aveva sofferto molto per la partenza della sorella al Carmelo; non l’aveva però ostacolata, anzi, alla sua partenza, l’aveva assai aiutata presso la mamma. Margherita, che aveva sposato l’impiegato di banca Giorgio Chevignard, aveva avuto nove figli: la maggiore venne chiamata Elisabetta.
Questo piccolo trattato: “Il Cielo nella fede” prese in seguito questo nome ad opera della Madre Germana, cui l’autrice aveva affidato lo scritto, da consegnare, dopo la morte, a sua sorella. Al piccolo trattato è stato posto il titolo “Il Cielo nella fede”, perché per Elisabetta l’inabitazione trinitaria costituisce il nostro cielo, pur sotto il velo della fede.
Elisabetta spiega a Margherita la verità di cui ella vive e che capiva essere l’essenza della vita di grazia di ogni cristiano. Non è preoccupata di fare un’opera originale: vuole solo parlare al cuore della sorella, essendo ella stata “ascoltatrice” della Parola di Dio.
Si può bene affermare che la sua dottrina non è che la riflessione sulla rivelazione biblica, e dell’esperienza che lei stessa ha avuto di questa rivelazione.
“IL CIELO NELLA FEDE”
Il breve scritto è strutturato come un ritiro di 10 giorni, con 2 orazioni (meditazioni) al giorno. Ora ti offriamo il testo di Elisabetta in modo che tu lo possa leggere ed entrare in ritiro come ha fatto la sorella Margherita, per cui ti consigliamo di seguire passo passo il testo non leggendolo d’un fiato ma rispettando la scansione in esso prevista.
Il pensiero s’incentra sull’unione di Dio Trinità con l’anima, che tende a diventare sempre più intima e totale.
Primo Giorno – Prima orazione
“Padre, voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dato, affinché contemplino la gloria che tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17, 24).
Tale è l’ultima volontà del Cristo, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre suo. Egli vuole che là dov’è lui, siamo anche noi, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e sempre in progresso. Importa perciò sapere dove dobbiamo vivere con lui per realizzare il suo sogno divino. “Il luogo dov’è nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, l’essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana” (S. Giovanni della Croce, Cantico B, str. 1, 3).
È ciò che faceva dire ad Isaia: “Voi siete veramente un Dio nascosto” (Is 45, 15). E tuttavia la sua volontà è che noi siamo fissi in lui, che dimoriamo dov’egli dimora, nell’unità d’amore, che siamo per così dire come l’ombra di lui stesso. Per il battesimo – dice S. Paolo – “noi siamo stati innestati in Cristo” (Rm 6, 5). E ancora: “Dio ci ha fatto assidere nei cieli in Cristo per mostrare ai secoli futuri le ricchezze della sua grazia” (Ef 2, 6-7). E più avanti: “Non siete più degli ospiti o degli stranieri, ma siete della città dei santi e della casa di Dio” (ibidem, 2, 19).
La Trinità, ecco la nostra dimora, la nostra casa, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire più. Il Signore l’ha detto un giorno: “Lo schiavo non dimora sempre nella casa, ma il figlio vi dimora sempre” (Gv 15, 4).
Seconda orazione
“Dimorate in me” (Gv 5, 4).
È il Verbo di Dio che dà quest’ordine, che esprime questa volontà. Dimorate in me non per qualche istante, qualche ora che deve passare, ma “dimorate” in modo permanente, abituale. Dimorate in me, pregate in me, adorate in me, amate in me, soffrite in me, lavorate, agite in me. Dimorate in me per essere presenti ad ogni persona e ad ogni cosa. Penetrate sempre di più in questa profondità. Questa è veramente la solitudine dove Dio vuole attirare l’anima per parlarle, come cantava il profeta (Os 2, 14).
Ma per intendere questa parola piena di mistero, non bisogna fermarsi, per così dire, alla superficie, bisogna entrare sempre di più nell’Essere divino mediante il raccoglimento. “Continuo la mia corsa”, esclamava S. Paolo (Fil 3, 14).
Così noi dobbiamo discendere ogni giorno questo sentiero dell’abisso che è Dio. Abbandoniamoci già per questa china con una fiducia piena d’amore. “Abisso chiama abisso” (Sal 41, 8). È laggiù, in quelle profondità, che avverrà l’urto divino, che l’abisso del nostro nulla, della nostra miseria, urterà contro l’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio. È laggiù che troveremo la forza di morire a noi stessi e che, perdendo le nostre tracce, saremo cambiati in amore. “Benedetti coloro che muoiono nel Signore” (Ap 14, 13).
Secondo Giorno – Prima orazione
“Il Regno dei cieli è dentro di voi” (Lc 17, 21).
Poco fa Gesù c’invitava a dimorare in lui, nella sua eredità di gloria, ed ora ci rivela che non dobbiamo uscire da noi stessi per trovarlo. “Il Regno dei cieli è al di dentro!…”. S. Giovanni della Croce dice che “è nella sostanza dell’anima dove non possono arrivare né il demonio né il mondo, che Dio si dà a lei. Allora tutti i suoi movimenti divengono divini e, sebbene siano di Dio, son pure egualmente suoi perché N. Signore li produce in lei e con lei” (S. Giovanni della Croce, Fiamma B, str. 1, 9).
Il medesimo Santo dice che Dio è il centro dell’anima. Quando l’anima conoscerà Dio perfettamente, nella misura di tutte le sue energie, l’amerà e ne godrà interamente, allora sarà arrivata al centro più profondo che possa attingere in lui. Prima di essere arrivata fin là, l’anima è già in Dio, che è il suo centro, ma non ancora nel suo centro “più profondo”, potendo andare più oltre.
Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, più intenso è l’amore, più essa entra profondamente in Dio e si concentra in lui. Quando possiede un solo grado d’amore, è già nel suo centro, ma quando quest’amore avrà raggiunto la sua perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro “più profondo”.
È là che sarà trasformata a tal punto da divenire somigliantissima a Dio (ibidem, str. 1, 12-13). A quest’anima che vive “al di dentro” possono essere rivolte le parole del P. Lacordaire a S. Maddalena: “Non chiedete più del Maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, perché lui è la vostra anima e la vostra anima è lui”.
Seconda orazione
“Affrettati a discendere perché bisogna che oggi mi fermi nella tua casa” (Lc 19, 5).
“Il Maestro ridice incessantemente alla nostra anima queste parole che rivolgeva un giorno a Zaccheo. “Affrettati a discendere”. Che cosa è mai questa discesa che esige da noi, se non il penetrare più a fondo nel nostro abisso interiore?” (Ruysbroeck l’admirable, Oeuvres choisies, traduit par Ernest Hello, nouvelle édition précédée d’un avant propos de Georges Goyau, Paris, Perrin et C.ie, 1912, p. 4 – Vedi nota alla Lett. 241). Quest’atto “non è una separazione esterna dalle cose esteriori, ma una solitudine dello spirito” (ibidem, p. 118), un liberarsi da tutto ciò che non è Dio. Finché la nostra anima ha dei capricci estranei all’unione divina, delle fantasie di sì e no, restiamo allo stato d’infanzia, non camminiamo a passi di gigante nell’amore, perché il fuoco non ha ancora bruciato tutta la scoria, l’oro non è puro, siamo ancora i cercatori di noi stessi, Dio non ha consumato tutta la nostra ostilità a lui. Ma quando il ribollimento della caldaia ha consumato ogni amore vizioso, ogni dolore vizioso, ogni viziosa paura, allora l’amore è perfetto e l’anello d’oro della nostra alleanza è più largo del cielo e della terra. Ecco la cella segreta dove l’amore colloca i suoi eletti. “Quell’amore ci conduce attraverso tutti i meandri e i sentieri che lui solo conosce. Ci conduce senza ritorno e non rifaremo più la via percorsa” (Op. cit., pp. 157-159).
Terzo Giorno – Prima orazione
“Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e mio Padre l’amerà e verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora” (Gv 14, 23).
Ecco il Maestro che ci manifesta ancora il suo desiderio di abitare in noi. “Se qualcuno mi ama!” L’amore, ecco ciò che attira, che trascina Dio alla sua creatura. Non un amore di sensibilità, ma quell’amore “forte come la morte e che le grandi acque non possono estinguere” (Ct 8, 6-7). “Perché amo il Padre” (Gv 14, 31), “faccio sempre ciò che a lui piace” (ibidem 8, 29). Così parlava il Maestro santo ed ogni anima che vuol vivere a contatto con lui, deve vivere anch’essa questa massima. Il beneplacito divino dev’essere il suo nutrimento, il suo pane quotidiano, deve lasciarsi immolare da tutte le volontà di Dio ad immagine del suo Cristo adorato. Ogni circostanza, ogni avvenimento, ogni sofferenza come ogni gioia, è un sacramento che le dà Dio. Così essa non fa più differenza tra le cose, le scavalca. Le oltrepassa per riposarsi, al di sopra di tutto, nel suo Maestro stesso. Lo innalza ben alto sulla montagna del suo cuore. Sì, più in alto dei suoi doni, delle sue consolazioni, più in alto delle dolcezze che piovono da lui. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai se stesso, di non riservarsi nulla, ma di dare tutto a colui che si ama. Beata l’anima che ama nella verità. Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore!
Seconda orazione
“Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col 3, 3).
Ecco S. Paolo che viene a darci una luce per rischiarare il sentiero dell’abisso. Siete morti! Che altro significa questo, se non che l’anima che aspira a vivere a contatto con Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, dev’essere separata, spogliata, allontanata da tutte le cose (quanto allo spirito)? Quest’anima trova in se stessa una semplice inclinazione d’amore che va verso Dio. Sebbene passino le creature, è invincibile rispetto alle cose che passano, perché resta al di sopra di esse, vivendo per Iddio. “Quotidie morior” (1 Cor 15, 31). Muoio ogni giorno. Diminuisco, rinunzio ogni giorno più a me stessa perché il Cristo cresca e sia esaltato in me. Rimango piccola piccola in fondo alla mia povertà. Vedo il mio nulla, la mia miseria, la mia impotenza. Mi riconosco incapace di progresso, di perseveranza. Scorgo la moltitudine delle mie negligenze, dei miei difetti, mi guardo nello specchio della mia indigenza. Mi prostro nella mia miseria e, riconoscendola apertamente, la espongo davanti alla misericordia del mio Maestro. “Quotidie morior”. Ripongo la gioia della mia anima (quanto alla volontà, non quanto alla sensibilità) in tutto ciò che può immolarmi, distruggermi, abbassarmi, perché voglio far posto al mio Maestro. “Non sono più io che vivo, ma è lui che vive in me” (Gal 2, 20). Non voglio più vivere della mia propria vita, ma essere trasformata in G. C. affinché la mia vita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi su di me, possa riconoscere l’immagine del “Figlio diletto nel quale ha posto tutte le sue compiacenze” (2 Pt 1, 17).
Quarto Giorno – Prima orazione
“Deus ignis consumens”. Il nostro Dio – scriveva S. Paolo – è un fuoco divoratore (Dt 4, 24; Eb 12, 29), cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso tutto ciò che tocca. “Le delizie di quest’incendio divino si rinnovano nel nostro intimo attraverso un’attività che non si ferma mai, è l’incendio dell’amore in un mutuo eterno abbandono. È un rinnovamento che si compie ad ogni istante nel nodo dell’amore” (Hello, op. cit., p. 72). Certe anime hanno scelto quest’asilo per riposarvisi eternamente. Ecco il silenzio nel quale si sono in qualche modo perdute, liberate della loro prigione. “Navigano nell’oceano della Divinità senza che alcuna creatura sia loro d’ostacolo o di tormento” (cfr. Hello, op. cit., p. 74). Per queste anime la morte mistica, di cui ci parlava S. Paolo ieri, diviene così semplice, così soave! Pensano molto meno al lavoro di distruzione e di spogliamento che resta ancora da compiere, che a gettarsi nel focolare d’amore che arde in loro, cioè lo Spirito Santo, quello stesso amore che nella Trinità costituisce il legame tra il Padre e il suo Verbo.
Entrano in lui attraverso la fede viva e là, semplici e quiete, si lasciano da lui trasportare al di sopra delle cose, dei gusti sensibili, nella “tenebra santa” (cfr. Hello, op. cit., p. 145). Trasformate nell’immagine divina, vivono – secondo l’espressione di S. Giovanni – “in società” (1 Gv 1, 3) con le “Tre” adorabili Persone, in comunione di vita. Questa è la vita contemplativa. Contemplazione che conduce al possesso. “Questo possesso semplice è la vita eterna gustata nell’abisso senza fondo. È là che ci aspetta al di sopra della ragione, la tranquillità profonda dell’immutabilità divina” (Hello, op. cit., pp. 145-147).
Seconda orazione
“Sono venuto ad accendere il fuoco sulla terra e che altro desidero se non di vederlo divampare?” (Lc 12, 49).
È lo stesso divino Maestro che ci manifesta il suo desiderio di veder ardere il fuoco d’amore. In realtà tutte le nostre opere, tutti i nostri lavori non sono nulla davanti a lui. Noi non possiamo dargli nulla né soddisfare il suo unico desiderio che è quello di riscattare la dignità della nostra anima. Nulla gli è tanto gradito quanto il vederla crescere e divenire grande. Ora nulla può elevarla tanto quanto il divenire in qualche modo uguale a Dio. Ecco perché esige da lei il tributo del suo amore. Infatti la proprietà dell’amore è quella di rendere uguale, per quanto è possibile, colui che ama a colui che è amato. L’anima in possesso di quest’amore appare su un piano di uguaglianza con Gesù dal momento che la reciproca affezione rende tutto comune tra di loro.
“Vi ho chiamati amici perché ho manifestato a voi tutto quello che ho udito dal Padre mio” (Gv 15, 15). Ma per arrivare a quest’amore, l’anima dev’essersi prima completamente liberata. La sua volontà dev’essere dolcemente perduta in quella di Dio in modo che le sue inclinazioni, le sue facoltà non si muovano più che in questo amore e per quest’amore. Fo tutto con amore, soffro tutto con amore. Tale è il senso di ciò che cantava David: “A te serberò tutta la mia forza” (Sal 58, 10). Allora l’amore la riempie talmente e l’assorbe e la protegge così bene che essa trova dovunque il segreto di crescere nell’amore. Perfino attraverso le relazioni che ha col mondo, in mezzo alle sollecitudini della vita, ha il diritto di dire: “unica mia occupazione è l’amore” (S. Giovanni della Croce, Cantico B, str. 28, 8-9).
Quinto Giorno – Prima orazione
“Ecco, io sono alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, entrerò da lui e mangerò presso di lui, e lui con me” (Ap 3, 20).
Beate le orecchie dell’anima abbastanza sveglie, abbastanza raccolte per udire questa voce del Verbo di Dio. Beati altresì gli occhi di quell’anima che alla luce della fede viva e profonda possono assistere all’arrivo del Maestro nel suo intimo santuario. Ma che cos’è dunque quest’arrivo? “È un’incessante generazione, un’illuminazione senza posa. Il Cristo viene con i suoi tesori, ma è tale il mistero della rapidità divina che egli arriva continuamente, sempre per la prima volta come se non fosse mai venuto. Il suo arrivo, indipendente dal tempo, consiste in un eterno “presente”, e un eterno desiderio eternamente rinnova le gioie del suo arrivo. Le delizie che arreca sono infinite perché sono lui stesso. La capacità dell’anima dilatata dall’arrivo del Maestro sembra come uscire da se stessa per passare, attraverso le sue pareti, nell’immensità di Dio che arriva. Accade allora questo fenomeno che Dio, nell’intimo del nostro essere, riceve Dio che arriva, Dio contempla Dio! Dio, nel quale consiste la beatitudine” (Hello, op. cit., pp. 64-65).
Seconda orazione
“Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui” (Gv 6, 56).
Il primo segno dell’amore è che Gesù ci ha dato a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue. La caratteristica dell’amore è di dare sempre e di sempre ricevere. Ora l’amore di Cristo è liberale. Tutto quello che ha, tutto quello che è, lo dona. Tutto quello che abbiamo, tutto quello che noi siamo, lo eleva. Ci chiede più di quello che noi siamo capaci di dare da noi stessi. Ha una fame immensa, tale da volerci assolutamente divorare. Penetra perfino nella midolla delle nostre ossa. Più noi glielo permettiamo con amore, più ampiamente lo gustiamo. Sa che siamo poveri, ma non ne tiene alcun conto e non risparmia in noi nulla di nulla.
Si crea in noi il suo proprio alimento lui stesso, bruciando dapprima nel suo amore vizi, difetti e peccati. Poi, quando ci vede puri, arriva come un avvoltoio insaziabile, pronto a tutto divorare. Vuole consumare la nostra vita per cambiarla nella sua, piena di grazia e di gloria, preparata apposta per noi, solo che sappiamo rinunziare a noi stessi. Se i nostri occhi fossero abbastanza buoni per vedere questa appetenza del Cristo che ha fame della nostra anima, tutti i nostri sforzi non c’impedirebbero di precipitarci nella sua bocca aperta. Tutto questo ha l’aria di essere un’assurdità. Quelli che amano comprenderanno!
Quando riceviamo il Cristo con intima dedizione, il suo Sangue pieno di calore e di gloria cola nelle nostre vene e il fuoco s’accende dentro di noi assimilandoci alle sue virtù. Vive in noi e noi viviamo in lui. Ci dona la sua anima con la plenitudine della grazia per la quale l’anima permane nella carità e nella lode del Padre! L’amore attira a sé il proprio oggetto. Noi attiriamo a noi Gesù ed egli ci attrae a sé. Allora, trasportati al di sopra di noi stessi, nell’interno dell’anima, vivendo in Dio, andiamo incontro a lui, incontro al suo Spirito che è il suo amore. E quest’amore ci brucia, ci consuma, ci attira nell’unità dove ci attende la beatitudine. A questo guardava Gesù, quando diceva: “Ho desiderato ardentemente di mangiare con voi questa Pasqua!” (Hello, op. cit., pp. 151-152, 154; Lc 22, 15).
Sesto Giorno – Prima orazione
“Per avvicinarsi a Dio, occorre credere” (Eb 11, 6).
È S. Paolo che parla così. Egli dice ancora: “La fede è la sostanza delle cose che si devono sperare e la dimostrazione di quelle che non si vedono” (Id. 11, 1). La fede cioè ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che per mezzo di lei prendono consistenza nella nostra anima e vi sussistono prima che ne godiamo. S. Giovanni della Croce dice che essa ci serve di base per andare a Dio e che rappresenta il possesso allo stato d’oscurità, che essa sola ci può dare dei veri lumi su colui che amiamo e che dobbiamo accoglierla come il mezzo per arrivare all’unione beata. La fede riversa copiosamente nella nostra anima tutti i beni spirituali (S. Giovanni della Croce, Salita, Libro II, passim). Gesù Cristo, parlando alla Samaritana, indicava la fede, quando prometteva a tutti coloro che avrebbero creduto in lui, di dar loro “una sorgente di acqua viva zampillante fino alla vita eterna” (Gv 4, 14). Così dunque la fede ci dà Dio fin da questa vita, certamente coperto di quel velo di cui essa lo copre, ma sempre Dio stesso.
“Quando verrà ciò che è perfetto”, cioè la chiara visione, “ciò che è imperfetto”, vale a dire la conoscenza data dalla fede, “riceverà tutta la sua perfezione” (cfr. 1 Cor 13, 10). “Noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e noi vi abbiamo creduto” (1 Gv 4, 16). Qui sta il grande atto della nostra fede. È il mezzo per rendere al nostro Dio amore per amore. È “il segreto nascosto nel cuore del Padre” (Col 1, 26), di cui parla S. Paolo. Noi lo penetriamo finalmente e tutta la nostra anima trasalisce. Allorché essa sa credere a “questo troppo grande amore che è su di lei” (cfr. Ef 2, 4), si può dire quello che è detto di Mosè: “Era incrollabile nella sua fede come se avesse visto l’invisibile” (Eb 11, 27). Non si ferma più ai gusti ed ai sentimenti, poco le importa di sentire Dio o di non sentirlo, poco le importa che le dia la gioia o la sofferenza. Essa crede al suo amore. Più è provata, più la sua fede cresce perché sa andare al di là di tutti gli ostacoli per riposarsi nel seno dell’amore infinito che non può fare che opere d’amore. Così a quest’anima tutta vigilante nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo quella parola che egli rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvata” (Lc 7, 50).
Seconda orazione
“Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6, 22).
Che cos’è quest’occhio semplice di cui parla il Maestro se non quella “semplicità d’intenzione che raccoglie in unità tutte le forze disperse dell’anima e unisce a Dio lo spirito stesso? È la semplicità che dà a Dio onore e lode, che presenta ed offre a lui le virtù. Poi, penetrando e attraversando se stessa, attraversando e penetrando tutte le creature, trova Dio nella sua profondità. Essa è il principio e il termine delle virtù, il loro splendore e la loro gloria. Chiamo intenzione semplice quella che non mira che a Dio, a lui riferendo tutte le cose. È lei che colloca l’uomo alla presenza di Dio, è lei che gli dà forza e coraggio, che lo rende vuoto e libero da ogni timore, oggi e nel giorno del giudizio. È lo slancio interiore, il fondamento di tutta la vita spirituale, che mette sotto i piedi la cattiva natura, dona la pace e impone silenzio ai vani rumori che si fanno in noi” (Hello, op. cit., pp. 33-34). È lei che aumenta d’ora in ora la nostra divina rassomiglianza e poi, al di là di ogni intermediario, è ancora lei che ci trasporterà nelle profondità in cui abita Dio e ci darà il riposo dell’abisso.
L’eredità beata che l’eternità ci ha preparato, sarà il dono della semplicità. Tutta la vita degli spiriti, tutta la loro virtù, consiste, insieme con la divina rassomiglianza, nella semplicità e il loro riposo supremo attinge il vertice della gloria nella semplicità. Così, nella misura del proprio amore, ogni spirito possiede una ricerca di Dio più o meno profonda, nella sua stessa profondità. “L’anima semplice, elevandosi in virtù del suo sguardo interiore, rientra in se stessa e contempla il proprio abisso, il santuario dove è sfiorata dal tocco della Trinità santa. Penetra così nella sua profondità fino a toccare il fondo che è la porta della vita eterna” (Hello, op. cit., pp. 36-37).
Settimo Giorno – Prima orazione
“Dio ci ha eletti in lui prima della creazione del mondo perché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore” (Ef 1, 4).
La Santa Trinità ci ha creato a sua immagine, secondo l’esemplare divino di noi stessi che portava nel suo seno prima che il mondo fosse, in quel principio senza principio di cui parla Bossuet dopo S. Giovanni: “In principio erat Verbum” (Gv 1, 1), al principio era il Verbo. Si può aggiungere, al principio era il nulla, perché Dio nella sua eterna solitudine ci portava già nel suo pensiero. “Il Padre contempla se stesso nell’abisso della sua fecondità e in virtù di questo atto stesso del comprendersi, genera un’altra Persona, il Figlio, il suo Verbo eterno. In lui si trovava dall’eternità il prototipo di tutte le creature non ancora uscite dal nulla e Dio le vedeva e le contemplava, ciascuna nel suo proprio esemplare, in se stesso. Questa esistenza eterna che i nostri prototipi possiedono senza di noi in Dio, è la causa della creazione. La nostra essenza creata mira a raggiungere il suo principio. Il Verbo, lo splendore del Padre, è l’esemplare eterno sul quale sono modellate le creature nel giorno della loro creazione. Ecco perché Dio vuole che noi, liberandoci da noi stessi, tendiamo le braccia verso il nostro esemplare e arriviamo a possederlo, salendo verso di lui al di sopra di tutte le cose. Questa contemplazione apre all’anima orizzonti insospettati e le consente di possedere, in certo modo, la corona a cui aspira” (Hello, op. cit., pp. 67-69). Le ricchezze immense che Dio ha per natura, noi le possiamo conquistare mediante l’amore che fa vivere Dio in noi e noi in Dio. È in virtù di quest’amore immenso che siamo attratti nel fondo del santuario interiore dove Dio imprime in noi una certa immagine della sua maestà. È dunque grazie all’amore e in virtù dell’amore che possiamo essere immacolati e santi al cospetto di Dio, come dice l’Apostolo, e cantare con David: “Sarò senza macchia e mi guarderò dal fondo d’iniquità che è in me” (Sal 18, 14).
Seconda orazione
“Siate santi perché io sono santo” (Lv 19, 2).
È il Signore che parla così. “Qualunque sia il nostro genere di vita o l’abito che ci copra, ciascun di noi dev’essere il santo di Dio” (Hello, op. cit., p. 157). Chi è il più santo? “È colui che ama di più, che guarda maggiormente a Dio e soddisfa più pienamente il suo sguardo” (ibidem, p. 113). Come soddisfare le esigenze dello sguardo divino se non restando semplicemente e amorosamente volti verso di lui perché possa riflettere in noi la sua immagine, come il sole si riflette attraverso un limpido cristallo? “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen 1, 26). Tale fu il grande volere del Cuore di Dio. “Senza la rassomiglianza che vien dalla grazia, ci aspetta la dannazione eterna. Dal momento che Dio ci vede atti a ricevere la grazia, la sua libera bontà è pronta a farci il dono che imprime in noi la sua rassomiglianza. La nostra attitudine a ricevere la grazia dipende dalla pienezza interiore con la quale ci muoviamo verso di lui. Dio allora, portandoci i suoi doni, può donarci se stesso ed imprimere in noi la sua rassomiglianza spezzando le nostre catene e facendoci liberi” (Hello, op. cit., p. 48). La più alta perfezione in questa vita, dice un pio autore, consiste nel restare talmente uniti a Dio che l’anima con le sue facoltà e potenze sin tutta raccolta in lui e tutte le sue affezioni, unificate nella gioia dell’amore, non trovino riposo che nel possesso del Creatore (cfr. ibidem). L’immagine di Dio impressa nell’anima è in realtà costituita dalla ragione, la memoria e la volontà. Finché queste facoltà non portano l’immagine perfetta di Dio non rassomigliano ancora a lui, come nel giorno della creazione.
La forma dell’anima è Dio che deve imprimersi in lei come il sigillo sulla cera, come la marca sul proprio oggetto. Ora questo non si realizza in pieno se la ragione non è completamente illuminata dalla conoscenza di Dio, se la volontà non è tutta incatenata all’amore del Bene sovrano, se la memoria non è totalmente assorbita nella contemplazione e il godimento della felicità eterna. Allo stesso modo che la gloria dei Beati non è altro che il possesso perfetto di questo stato, così è chiaro che il possesso incipiente di questi beni costituisce la perfezione in questa vita. Per realizzare quest’ideale, occorre tenersi raccolti dentro di sé, stare in silenzio alla presenza di Dio, mentre l’anima s’inabissa, si dilata, s’infiamma e si fonde in lui con una pienezza senza limiti.
Ottavo Giorno – Prima orazione
“Quelli che Dio ha conosciuto nella sua prescienza, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo divino. Quelli che ha predestinato li ha chiamati; quelli che ha chiamati li giustifica; quelli che giustifica, li glorifica. Che cosa diremo dopo tutto questo? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi ci separerà dalla carità di Gesù Cristo?” (Rm 8, 29-31, 35).
Tale appariva allo sguardo illuminato dell’Apostolo il mistero della predestinazione, il mistero dell’elezione divina. “Quelli che ha conosciuto”. Non siamo stati anche noi di questo numero? Non può dire Dio alla nostra anima quello che diceva un tempo per bocca del suo profeta: “Son passato in mezzo a voi e vi ho considerati. Ho visto che era venuto il tempo per voi d’essere amati, ho steso sopra di voi la mia veste, ho giurato di proteggervi, ho fatto alleanza con voi e siete divenuti miei” (Ez 16, 8)? Sì, siamo divenuti suoi mediante il battesimo. È ciò che vuol dire S. Paolo con quelle parole: “Li ha chiamati”. Sì, chiamati a ricevere il sigillo della S. Trinità. Nel medesimo tempo in cui, secondo le parole di S. Pietro, “siamo stati fatti partecipi della divina natura” (2 Pt 1, 4), abbiamo ricevuto “un principio del suo essere” (Eb 3, 14). …Poi ci ha giustificati per mezzo dei suoi sacramenti, col tocco diretto del suo spirito nel raccoglimento intimo dell’anima. Ci ha pure giustificati per la fede (Rm 5, 1) e nella misura della nostra fede, nella Redenzione operata da Cristo.
Infine, vuole glorificarci e per questo, dice S. Paolo, “ci ha resi degni di partecipare all’eredità dei santi nella luce” (Col 1, 12). Ma saremo glorificati nella misura in cui saremo stati conformi all’immagine del Figlio suo divino. Contempliamo perciò quest’Immagine adorata, teniamoci senza posa sotto la luce che da lei emana affinché s’imprima in noi. Poi andiamo a tutte le cose con quell’atteggiamento dell’anima col quale vi andava il nostro Maestro santo. Realizzeremo allora la grande volontà per la quale Dio ha deciso “in se stesso” di “restaurare tutte le cose in Cristo” (Ef 1, 9-10).
Seconda orazione
“Mi sembra che tutto sia una perdita dal momento che so quanto sia trascendente la conoscenza del Cristo Gesù, mio Signore. Per il suo amore ho tutto perduto stimando tutte le cose come letame per guadagnare il Cristo. Ecco ciò che voglio: conoscere lui, aver parte alle sue sofferenze ed essere conforme alla sua morte. Proseguo la mia corsa sforzandomi di arrivare là dove mi ha destinato quando mi ha preso. Di questo solo mi preoccupo, di dimenticare quello che è dietro di me, di tendere costantemente a ciò che mi sta davanti. Corro dritto allo scopo, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato nel Cristo Gesù” (Fil 3, 8-14), cioè non voglio più altro che identificarmi con lui. “Mihi vivere Christus est – la mia vita è Cristo” (ibidem, 1, 21).
Tutta l’anima ardente di S. Paolo passa attraverso queste righe. Durante questo ritiro il cui scopo è quello di renderci più conformi al nostro Maestro adorato, meglio ancora, di fonderci così bene con lui da poter dire: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me e quello che ho di vita in questo corpo di morte mi viene dalla fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e si è dato per me” (Gal 2, 20), studiamo questo divino modello.
La sua conoscenza – dice l’Apostolo – “è così trascendente!” (Fil 3, 8). Quali sono state le sue prime parole entrando nel mondo? “Gli olocausti non vi sono più graditi, per questo ho preso un corpo. Eccomi, o Padre, per fare la vostra volontà” (Eb 10, 5). Durante i suoi 33 anni, questa volontà fu talmente il suo pane quotidiano che al momento di riconsegnare la sua anima nelle mani del Padre, poteva dirgli: “Tutto è consumato” (Gv 19, 30). “Sì, tutte le vostre volontà sono state compiute”. “Per questo vi ho glorificato sulla terra” (Gv 17, 4). In realtà Gesù Cristo, parlando ai suoi apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano, diceva loro: “Io non sono mai solo” (ibidem, 8, 16). “Colui che mi ha mandato è sempre con me perché fo sempre quello che a lui piace” (ibidem, 8, 29). Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio. Se talvolta queste volontà sono più crocifiggenti, possiamo dire senza dubbio col nostro Maestro adorato: “Padre, se possibile, che questo calice s’allontani da me”, ma subito aggiungeremo: “Non come voglio io, ma come volete voi” (Mt 26, 39). Con calma e forza, insieme col divino Crocifisso, saliremo poi anche noi il Calvario cantando nel profondo delle nostre anime e facendo salire verso il Padre un inno di ringraziamento perché quelli che camminano per questa via dolorosa son proprio coloro ch’egli “ha conosciuto e predestinato per essere conformi all’immagine del Figlio suo divino” (Rm 8, 29), il Crocifisso per amore!…
Nono Giorno – Prima orazione
“Dio ci ha predestinato all’adozione dei figli per mezzo di Gesù Cristo e in unione con lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia per la quale ci ha giustificati nel suo Figlio diletto nel quale abbiamo la redenzione per il suo Sangue, la remissione dei peccati, secondo le ricchezze della sua grazia che ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza” (Ef 1, 5-8).
L’anima, divenuta realmente figlia di Dio, secondo la parola dell’Apostolo, è mossa dallo Spirito Santo stesso. “Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, quelli sono figli di Dio” (Rm 8, 14). E ancora: “Non abbiamo ricevuto lo spirito di servitù per lasciarci ancora condurre dal timore, ma lo spirito d’adozione dei figli nel quale gridiamo: “Abba, Padre!” In realtà lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio. Ma se siamo figli, siamo anche eredi, dico eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo, se però soffriamo con lui per essere con lui glorificati” (ibidem, 8, 15-17). È per farci pervenire a quest’abisso di gloria che Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. “Guardate di quale carità ci ha gratificati il Padre concedendoci di essere chiamati figli di Dio, e di esserlo veramente!… Fin d’ora siamo figli di Dio e non si è ancora visto quello che saremo. Sappiamo che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui perché lo vedremo così com’è, e chiunque ha questa speranza in lui, si santifica come lui stesso è santo” (1 Gv 3, 1-3). Ecco la misura della santità dei figli di Dio, essere santo come Dio, essere santo della santità di Dio.
E questo vivendo a contatto con lui in fondo all’abisso senza fondo. “Al di dentro”. L’anima allora sembra avere una certa somiglianza con Dio che, pur trovando la sua delizia in tutte le cose, non ne trova mai tanta quanta in se stessa. Infatti egli possiede in sé un bene sovraeminente davanti al quale tutti gli altri spariscono. Così tutte le gioie che l’anima incontra, sono per lei altrettanti avvertimenti che la invitano ad assaporare il bene di cui è in possesso ed al quale nessun altro può essere paragonato… “Il Padre che è nei cieli” (Mt 6, 9) si trova in questo piccolo cielo che si è fatto al centro della nostra anima. È qui che lo dobbiamo cercare e soprattutto è qui che dobbiamo dimorare. Il Cristo diceva un giorno alla Samaritana che “il Padre cerca dei veri adoratori “in spirito e verità”” (Gv 4, 23). Per dare gioia al suo cuore, siamo noi quei grandi adoratori.
Adoriamolo “in spirito”, cioè teniamo il cuore e il pensiero fissi in lui, lo spirito pieno della sua conoscenza, mediante il lume della fede. Adoriamolo “in verità”, cioè con le nostre opere, perché è soprattutto attraverso le nostre azioni che siamo veri. Ciò equivale a far sempre, quello che piace al Padre di cui siamo figli. Infine, adoriamolo “in spirito e verità”, vale a dire per mezzo di Gesù Cristo e con G. C. perché egli solo è il vero adoratore “in spirito e verità”. Allora, saremo i figli di Dio e conosceremo di scienza sperimentale quelle parole d’Isaia: “Sarete portati al seno e vi si accarezzerà sulle ginocchia” (Is 66, 12). In realtà, tutta l’occupazione di Dio sembra essere quella di colmare l’anima di carezze e di segni d’affetto, come una mamma che solleva il suo bambino e lo nutre del suo latte. Oh! rendiamoci attenti alla voce del Padre nostro: “Figlio mio, egli dice, dammi il tuo cuore” (Pr 23, 26).
Seconda orazione
“Dio che è ricco in misericordia, spinto dal suo eccessivo amore, quando eravamo morti per i nostri peccati, ci ha reso la vita in Gesù Cristo… Poiché tutti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio, vengono giustificati dalla sua grazia attraverso la redenzione che è nel Cristo Gesù, che Dio ha prestabilito propiziazione per i peccati, mostrando al tempo stesso che egli è giusto e giustifica colui che ha fede in lui” (Rm 3, 23-26).
“Il peccato è un male talmente spaventoso che non è mai lecito commetterlo né per cercare un bene qualsiasi, né per evitare qualsiasi male. Ora noi abbiamo commesso un grande numero di peccati. Come possiamo non cadere in adorazione quando ci gettiamo nell’abisso della misericordia divina e gli occhi della nostra anima si fermano su questo fatto che Dio ha eliminato i nostri peccati?” (Hello, op. cit., p. 169). Egli lo ha detto: “Cancellerò tutte le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Ger 31, 34). “Il Signore, nella sua clemenza, ha voluto che il peccato si risolvesse in danno del peccato stesso ed ha trovato il mezzo di renderlo utile per noi, convertendolo nelle nostre mani in uno strumento di salvezza. Ciò non deve diminuire in nessun modo il nostro terrore del peccato, né il dolore d’aver peccato, ma i nostri peccati sono divenuti per noi una sorgente di umiltà” (Hello, op. cit., p. 170). Quando l’anima, “nell’intimo di se stessa, considera con occhi brucianti d’amore l’immensità di Dio, la sua fedeltà, le sue prove d’amore, tutti i suoi benefizi che nulla possono aggiungere alla sua felicità, e poi torna a guardare se stessa, vede le sue ribellioni contro questo Signore d’immensa potenza e prova orrore e disprezzo di sé. Non sa più come fare per detestare come vorrebbe le sue colpe. Allora non le resta che piangere davanti a Dio, suo amico, lamentandosi con lui che la violenza del disprezzo da cui è trascinata, non la umili tanto quanto sarebbe necessario. Si rassegna così alla volontà di Dio e trova la sua pace in questa abnegazione interiore, quella pace invincibile e perfetta che nulla turberà. Si è infatti precipitata in un tale abisso che nessuno potrà ricercarla fin là” (ibidem, pp. 97-98). Se “qualcuno mi dicesse di aver toccato il fondo e perciò di essere del tutto immerso nell’umiltà, non lo contraddirei e mi sembra inoltre che essere gettato nell’umiltà sia lo stesso che essere gettato in Dio, perché Dio è il fondo dell’abisso. È per questo che l’umiltà, come la carità, è sempre capace di crescere” (ibidem, p. 99). Infatti “questo fondo pieno d’umiltà è il vaso che occorre, il vaso capace della grazia, il vaso dove Dio la vuole versare” (ibidem). Mai l’umile collocherà Dio troppo in alto o se stesso troppo in basso. “Ma ecco la meraviglia: la sua impotenza si cambierà in saggezza e l’imperfezione dei suoi atti, sempre insufficienti ai suoi occhi, si riempie del più grande sapore della vita. Chiunque possiede un fondo di umiltà non ha bisogno di molte parole per istruirsi. Dio gli dice più cose di quelle che potrebbero essergli insegnate. I discepoli di Dio sono in questa posizione” (cfr. op. cit., p. 102).
Decimo Giorno – Prima orazione
“Si scires donum Dei!” (Gv 4, 10). Se tu sapessi il dono di Dio! diceva una sera (sic) il Cristo alla Samaritana. Ma che cos’è questo dono di Dio, se non lui stesso? Il discepolo prediletto ci dice che “egli è venuto nella sua casa e i suoi non l’hanno ricevuto” (ibidem, 1, 11), S. Giovanni Battista potrebbe ancora dire a tante anime: “In mezzo a voi – in voi c’è uno che voi non conoscete” (ibidem, 1, 26). “Se tu sapessi il dono di Dio!”…
Vi è una creatura che conobbe questo dono di Dio, una creatura che non ne perdette neppure una goccia, una creatura che fu tanto pura e luminosa da sembrare la luce stessa. “Speculum Iustitiae”: una creatura la cui vita fu così semplice e perduta in Dio che è quasi impossibile parlarne. “Virgo fidelis”: è la Vergine fedele: “colei che custodiva tutte le cose nel suo cuore” (Lc 2, 51). Si manteneva così piccola e raccolta alla presenza di Dio, nel segreto del tempio, che attirava su di sé le compiacenze della Trinità santa. “Poiché il Signore si è degnato di rivolgere lo sguardo alla pochezza della sua serva, tutte le generazioni mi chiameranno beata!” (ibidem, 1, 48). Il Padre, chinandosi sopra questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, ha voluto che fosse nel tempo la Madre di colui di cui egli è il Padre nell’eternità. Allora intervenne lo Spirito d’amore che presiede a tutte le operazioni di Dio e la Vergine disse il suo Fiat: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola” (ibidem, 1, 38). Si compì allora il più grande dei misteri e, per la discesa del Verbo, Maria fu per sempre la preda di Dio. Mi sembra che l’atteggiamento della Vergine, durante i mesi che trascorsero dall’Annunciazione alla Natività, sia il modello delle anime interiori, delle creature che Dio ha scelto per vivere al di dentro, nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quale pace, con quale raccoglimento Maria si avvicinava ad ogni cosa, faceva ogni cosa! Come anche le cose più banali erano da lei divinizzate! In tutto e per tutto la Vergine restava in adorazione del dono di Dio. E questo non le impediva di prodigarsi al di fuori, quando si trattava di esercitare la carità. Il Vangelo ci dice che Maria percorse in fretta le montagne della Giudea per recarsi dalla sua cugina Elisabetta (ibidem, 1, 39-40). La visione ineffabile che contemplava in se stessa non diminuì mai la sua carità esterna. Questo perché – come dice un pio autore – “se la contemplazione va verso la lode e verso l’eternità del suo Signore, essa possiede l’unità e non potrà perderla. Viene un ordine del cielo, ed essa si rivolge verso gli uomini, ha compassione di tutte le loro necessità, si china su tutte le loro miserie, bisogna che pianga e fecondi. Essa illumina come il fuoco, arde come la fiamma, assorbe e divora sollevando verso il cielo ciò che ha divorato. Quando ha compiuto la sua azione in basso, si eleva e riprende, ardendo del suo fuoco, la via verso l’alto!” (Hello, op. cit., p. 224).
Seconda orazione
“Noi siamo stati predestinati da un decreto di colui che opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà perché siamo la lode della sua gloria” (Ef 1, 11-12).
È S. Paolo che parla così. S. Paolo istruisce per mezzo di Dio stesso. Come realizzare questo grande sogno di Dio, questo suo volere immutabile rispetto alle nostre anime? Come rispondere, in altre parole, alla nostra vocazione e diventare perfette Lodi di gloria della Ss. Trinità? Nel cielo ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo, allo Spirito Santo, perché ogni anima è stabilita nel puro amore e non vive più della sua propria vita, ma della vita di Dio. Allora essa lo conosce – come dice S. Paolo – allo stesso modo che è da lui conosciuta (cfr. 1 Cor 13, 12). In altri termini, il suo pensiero è il pensiero di Dio, la sua volontà la volontà di Dio, il suo amore l’amore stesso di Dio. In realtà è lo Spirito d’amore e di forza che trasforma l’anima. È lui che opera questa gloriosa trasformazione dell’anima, essendo stato inviato a noi per supplire alle nostre deficienze, come s’esprime ancora S. Paolo (Rm 8, 26). Afferma S. Giovanni della Croce che l’anima abbandonata all’amore, per la virtù dello Spirito Santo, è quasi sul punto di elevarsi, fin da ora, a quel grado di perfezione di cui abbiamo parlato (cfr. S. Giovanni della Croce, Cantico B, str. 38, 2-3). Ecco ciò che chiamo una perfetta Lode di gloria.
Una Lode di gloria è un’anima che dimora in Dio, che lo ama d’un amore puro e disinteressato, senza ricercare se stessa nella dolcezza di quest’amore, che lo ama al di sopra di tutti i suoi doni come se nulla avesse ricevuto, fino a desiderare il bene dell’oggetto così amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente il bene di Dio, se non adempiendo la sua volontà? Quella volontà che ordina tutte le cose per la sua maggior gloria? L’anima di cui parlo deve perciò dedicarvisi pienamente, perdutamente, fino a non poter volere altro che ciò che vuole Dio.
Una Lode di gloria è un’anima di silenzio che si tiene come una lira sotto il tocco dello Spirito Santo per farne uscire delle armonie divine. Essa sa che la sofferenza è una corda che produce dei suoni più belli ancora ed ama farsene il suo strumento per commuovere più deliziosamente il cuore di Dio.
Una Lode di gloria è un’anima che fissa Dio nella fede e nella semplicità, è uno specchio che lo riflette in tutto ciò che egli è, è come un abisso senza fondo in cui egli può fluire ed espandersi. Ancora, è come un cristallo attraverso il quale egli può riflettere e contemplare tutte le sue perfezioni e il suo proprio splendore. Un’anima che permette così all’Essere divino di appagare in lei il suo bisogno di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che ha, è in realtà la Lode di gloria di tutti i suoi doni.
Infine, una Lode di gloria è sempre occupata nel rendimento di grazie. Ognuno dei suoi atti, dei suoi movimenti, ogni suo pensiero ed aspirazione, nel tempo stesso che la radicano più profondamente nell’amore, sono come un’eco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria i Beati non cessano mai giorno e notte di ripetere: “Santo, Santo, Santo il Signore onnipotente, e si prostrano e adorano colui che vive nei secoli dei secoli…” (Ap 4, 8). Nel cielo della sua anima, la Lode di gloria comincia già il suo ufficio dell’eternità. Il suo cantico è ininterrotto perché essa è sotto l’azione dello Spirito Santo che opera tutto in lei. Sebbene non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le permette di essere fissa in Dio senza distrazioni, canta sempre, adora sempre, è come passata tutta, per così dire, nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio.
Siamo anche noi, nel cielo della nostra anima, Lodi di gloria della Ss. Trinità, lodi d’amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno il velo cadrà, saremo introdotti nei vestiboli eterni e lassù canteremo nel seno dell’amore infinito. Dio ci darà allora il “nome nuovo promesso ai vincitori” (Ap 2, 17). Quale sarà?! Laudem gloriae.